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Ritratto di Signora: Maria Carta by Red - 16 agosto 2011

Per (concepire) le femmine va meglio la sera, dopo una mangiata di cardo pisciauolo, uova e miele. Le uova per le rotondità, il cardo e il miele per il carattere.
( da “La vedova scalza” Salvatore Niffoi)

Ci sono donne grandissime che nascono in posti piccoli piccoli. Sono donne che da quando sono adolescenti trovano un orizzonte da cui guardare e aspettano l’istante giusto per spiccare il volo. La nostalgia con cui fissano in lontananza l’altrove non parla del desiderio di una fuga, ma di una struggente voglia di libertà. Le partenze di donne come queste, non sono urlate con rabbia, ma colme di immenso amore per ciò che si lascia. O meglio, le donne come Maria Carta non lasciano la loro terra, semplicemente a volte vivono altrove.
Maria naque a Siligo nel 1934 e a Siligo crebbe e cantò. Non è una cosa strana, tutti nasciamo e cantiamo: si cresce così, con una colonna sonora, con impressi suoni, voci, colori, che al pari del cibo ci si insediano nell’anima per diventarne la sostanza che la rende grande. Maria non ebbe una vita strana, e come quasi ogni bambina sarda degli anni trenta, nutrì la sua anima di campagna e canti, di lavoro e balli, e come tutti cantava e ballava, ma la sua voce non era come quella di tutti. Così i paesani le insegnarono le canzoni perché le potesse cantare alle feste e il parroco le insegnò la messa tradizionale perché potesse arricchire le celebrazioni. Maria diventava grande e cresceva con lei la voce, la bellezza, e la nostalgia del mondo, nutrita a guardare l’orizzonte dalla finestra di casa, come raccontava lei stessa. Aveva ventitré anni quando divenne miss Sardegna, ventiquattro quando si trasferì a Roma, ventisette quando, sposando lo sceneggiatore Salvatore Laurani, lasciò definitivamente la Sardegna per la capitale. Ma è l’altrove ad indicarle che la sua strada non può essere che nelle radici, e da Roma alla Sardegna il passo è breve, lo sappiamo in tante da queste parti, me compresa! Torna spesso a casa per studiare e approfondire il canto tradizionale, la vita artistica che ne scaturisce non è antica né moderna, non è folklore né campanilistico nazionalismo sardo. Io direi che quel che segna Maria Carta è destino, non scelta. Sarà attrice, voluta da Zeffirelli e da Coppola, avrà un repertorio proveniente da tutto il mondo, vivrà l’impegno politico fino a diventare consigliere comunale per il Partito Comunista a Roma, lei che confessava di pensare in sardo e poi tradurre in italiano, scriverà poesie, farà ricerca etnografica di tale valore da tenere corsi universitari a Bologna: queste si possono definire scelte. Ma la sua voce roca e profonda non appartiene solo a lei: evoca quella di intere generazioni di donne sarde, il suo amore per il canto è tale da farle affrontare della malattia, che la farà morire nel 1994, tutto tranne che le cure che le toglierebbero la capacità di cantare, e in questo gioca solo il destino. Nonostante la sua estrema versatilità sarà per sempre la voce del canto sardo, nonostante vide e conobbe tutto il mondo lei sarà comunque, fino alla fine, Siligo, nonostante la sua bellezza universale il suo nome non evoca un corpo, ma voce e capelli neri mossi dal vento.
Ci sono donne che passano l’adolescenza a volere tutto il mondo e a pochi mesi dalla loro morte dicono semplicemente “Sì, io da Siligo non sono mai andata via… 
Ci sono donne che affrontano il mondo a testa alta, stanno accanto ai nomi più grandi della cultura e della politica, meritano successo e fama e, nel giorno in cui finalmente la loro terra le celebra, non esaltano la propria grandezza, ma confessano: “Oggi mi sento piccola e come sempre con le mie enormi paure. Sono partita da qui con la volontà di cantare e portare in giro per il mondo la nostra memoria, e penso di averlo fatto con molta dignità perché non ho camminato mai da sola. Ero presa per mano da voi tutti, da tutto quello che voi mi avete insegnato. E mi avete insegnato una grande cosa, che la povertà non è importante, ma è importante la grande dignità che ognuno di noi si porta dentro: la grande dignità di noi sardi, ma insieme anche le nostre paure”.
Ci sono donne fatte di fragilità e grandezza, di pazienza e dolore, di sole e di buio, sono queste le donne di miele e cardi selvatici, dure e materne come la mia terra.


Pink e l'epigrafia - 2 agosto 2011

“Gli epigrafisti hanno il gusto dell'orrido!”: questo ci disse un giorno a lezione il nostro docente di epigrafia, il mio maestro, il pater putativus delle mie scelte lavorative. In effetti si potrebbe facilmente pensare che di bello o affascinante in quattro lettere messe in croce e scritte male su un pezzo di pietra non ci sia molto. Non è proprio così. Lo studio di un'iscrizione è emozionante, è come cercare di risolvere un gioco di enigmistica, un'indagine di un romanzo: chi era la persona di cui parla la pietra, cosa faceva, perché questo testo? La storia non è fatta solo di grandi momenti o di grandissimi personaggi. Esistono dei perfetti signori nessuno che ci danno l'idea di cosa fosse il mondo dell'antichità molto più dei grandi condottieri e delle loro battaglie. Ma anche quando le lettere sulla pietra sono realmente quattro, o anche meno, che c'è di bello? Il bello è provare a ricostruire il senso di quelle quattro lettere. Ma quando quelle lettere oltre ad essere quattro sono pure incomprensibili? Beh, l'esercizio di logica è ancora più interessante. Qualunque cosa ci sia scritto, resta il fatto che qualcuno ha voluto fermare una parte della sua vita, della vita di una persona a lui cara, sulla pietra per sempre. Anche la ricostruzione dei grandi eventi poggia sullo studio delle iscrizioni: celebrazioni di trionfi, emanazione di leggi, ricordo di grandi imprese compiute, inaugurazioni o restauri di grandi monumenti e opere pubbliche. Con un'iscrizione sappiamo quando queste cose sono avvenute. In questo senso sono legata a Red: tutt'e due siamo appassionate di pietre, solo che lei preferisce gli analfabeti, io invece le preferisco scritte anche se piene di errori. È emozionante vedere che una sequenza apparentemente priva di senso (me ne ricordo una che quando preparavo l'esame mi faceva sclerare: INNEDNI) ha invece un senso preciso e non è messa a caso (N.d.R.: In quel caso il senso era IN N(omin)E D(omi)NI), e che improvvisamente ci apre uno scenario di ricostruzione possibile. Ricordo di aver studiato testi di incredibile bellezza nella loro semplicità e nella loro ricostruzione del dolore, come quello di Praenstantius che dopo aver perso la moglie e tutti i figli si definisce “un miserabile esperto di dolore”, o la dolcezza espressa nell'epitaffio di Procla, una bimba lodata e amata dai genitori che fecero fare per la sua pietà un'iscrizione bellissima. Studiare un'iscrizione a me dà a volte l'idea di entrare in punta di piedi nella vita di un estraneo, e di usare quel pezzo di vita per comporre un puzzle molto più ampio. Sono sempre stata d'accordo con chi sostiene che per vivere bene il futuro bisogna conoscere alla perfezione il passato, per cui nel mio piccolo mi impegno in questo: cercare di ricostruire il passato, non usando soltanto quello che la terra restituisce, ma quello che l'uomo stesso ha scritto di sé. Red dice che vedendo il numero dei morti e delle atrocità commesse nel passato si sarebbe depressa seguendo l'orientamento storico. Beh, è un po' come un medico legale che si deprime a forza di vedere cadaveri. Sono cose che vanno messe in conto, nel senso che ogni guerra purtroppo ha i suoi morti e anche contarli rende l'idea delle proporzioni di un conflitto. Il dato numerico sarà freddo e insensibile ma ha una sua importanza. Bisogna avere un po' lo stomaco di ferro. D'altronde sul numero di morti si può tirare fuori una curiosità interessante: il numero dei morti greci della battaglia di Maratona (192) è lo stesso delle figure del fregio del Partenone con la processione delle Panatenee. Il numero in questo caso ha anche un significato simbolico per i posteri. Io non avevo amore per le cause perse, ma ho smesso presto di avere una visione manichea dei fatti: non è mai esistito per me chi avesse torto e chi ragione. Ricordo infatti la primissima iscrizione che ho studiato, era di un usurpatore imperiale a me fino ad allora ignoto. Non sapere chi fosse mi fece scattare una molla splendida di voglia di conoscenza e mi promisi che mai più avrei guardato un'iscrizione senza cercare di capire al mio meglio possibile di chi e cosa parlasse. A me le iscrizioni fanno questo effetto, le guardo e vedo l'uomo che ha scelto la pietra, l'ha sbozzata, riquadrata e ha lasciato su di essa un'imperitura traccia di sé consegnandola, involontariamente o anche no, alla Storia.

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