l'Assemblea Generale
proclama
La presente Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani
come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da
tutte le Nazioni al fine che ogni individuo e ogni organo della società avendo
costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con
l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste
libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e
internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento tanto tra i popoli
degli stessi Stati membri, quanto tra quelli dei territori posti sotto la loro
giurisdizione.
Nel 1998, il 10 dicembre, la Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo festeggiava il suo cinquantesimo compleanno.
Per celebrare la ricorrenza a scuola ci regalarono un fascicoletto con il testo
integrale bilingue, italiano e sardo. Avevo diciassette anni e trovai che fosse
una delle cose più interessanti che avessi mai portato a casa da scuola, e lo
misi nella mia libreria, tra i libri di filosofia e le letterature greca e
latina.
Oggi la Dichiarazione compie sessantatre
anni, e nonostante il tempo passato, la sua applicazione non riesce a farsi
realtà e continua imperterrita ad inciampare negli interessi, nell’egoismo,
nella demagogia che instilla nel pensare comune che il benessere si regga solo
sul privilegio, e che i diritti condivisi siano sinonimo della perdita dei
privilegi stessi. Così capita, per esempio, che si ami girare tutto il mondo e ci
si lagni per la lunghezza delle file alla dogana durante i propri viaggi di
piacere, ma contemporaneamente si voglia che le nostre frontiere siano chiuse a
doppia mandata, e non si perde troppo il sonno su come e perché si respingano i
migranti.
Mi sembra che il ragionamento non fili
molto liscio, e mi sembra anche che il fatto, vero, che i governi dei vari
paesi, Italia compresa, non abbiano fatto grandi sforzi per dare applicazione a
questi trenta semplici e incontestabili articoli, non sia un buon motivo per guardarli
con aria di sufficienza.
Per questo ho scelto l’ultima frase del
preambolo, la premessa al celeberrimo “Tutti
gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti” voluta dall’assemblea
generale delle Nazioni Unite, consapevole di quanto sarebbe stata difficile la
strada dopo quel primo, importantissimo, passo che dichiarava per la prima
volta nella storia, l’uguaglianza non tra i cittadini di uno stato, ma del
mondo.
Il mio consiglio per oggi è di leggere
tutti gli articoli e di pensare se davvero volete che questi diritti e queste
libertà vengano rispettate e garantite. Se la risposta è si, anche solo per uno
di essi, e non ne dubito, visto che siete lettori de La Rassegna Stronza,
passate al preambolo e riflettete su questo: “…proclama la presente Dichiarazione Universale dei Diritti Umani come
ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni al fine
che ogni individuo e ogni organo della società avendo costantemente presente
questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e
l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà”.
Ci sono tutte le mie parole preferite:
ideale comune, popolo, società, insegnamento, educazione, diritti, libertà! E
c’è un concetto bellissimo, qualcuno potrebbe dire una gran fregatura, che
toglie dal riparo dell’indifferenza la coscienza di tutti: questa dichiarazione
non può, come scritto nell’articolo 30,
essere vincolante nelle leggi di nessuno Stato, ma è stata scritta per
impegnare ogni elemento della società alla costruzione di una umanità libera e
uguale. Questa premessa mette nero su bianco che ogni cittadino è chiamato ad
impegnarsi per l’attuazione di questo “ideale comune”, e non lascia alcuno
spazio al cinismo disfattista di chi pretende che la giustizia e il diritto
siano un’imposizione paternalistica e non una conquista di popolo.
Tutti abbiamo una funzione importante
nella promozione, nell’insegnamento e nell’educazione. Tutti parliamo e
promuoviamo con ardore dei concetti e dei modi di vita, tutti insegniamo
qualcosa a qualcuno, tutti partecipiamo all’educazione delle nuove generazioni,
in maniera più o meno diretta. Ricordiamoci che ogni volta che affermiamo la
disuguaglianza tra le persone, quando giustifichiamo le soprafazioni, quando
neghiamo che esista il diritto ad avere tempo libero, quando diciamo a qualcuno
che le sue idee non hanno diritto di espressione stiamo andando contro la
Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, quando lo facciamo davanti a
chi guarda verso di noi per imparare cosa sono il bene e il male la stiamo
violando due volte. Quando pensiamo che non tocchi a noi parlarne, divulgarla o
difendere a spada tratta i diritti in cui crediamo, ci comportiamo come i
governi che critichiamo e contro i quali protestiamo.
Io tredici anni fa presi quel libretto, lo
lessi prima avidamente in italiano, poi lo rilessi in sardo, ad alta voce per
sentire il suono della mia lingua madre parlare di qualcosa di universale, poi
iniziai a pensarci su, a meditare. Lo lasciai tra i libri di scuola perché mi
capitasse in mano spesso, per non dimenticarlo nel marasma di libri che da
innamorata della lettura divoravo.
Oggi l’Abbagnano, il Baldi, il Citti, e gli altri hanno cambiato
libreria, lui no, è rimasto nel ripiano dei Miei libri, quelli che ho scoperto
adolescente e che ancora rileggo e consulto per ricordarmi chi sono. È lì, tra
la Deledda e Hesse, in compagnia di Baudeleaire, Catullo, Euripide, Gramsci e “el
Sup” Marcos. Sta lì, a portata di mano ogni volta che, come oggi, ho voglia di
ragionare sugli ideali comuni, pronto per quando mia nipotina avrà l’età giusta
per leggerlo insieme, ad aspettare chiunque voglia curiosare tra i miei libri,
a ricordarmi che la società ha bisogno di uno sforzo comune per aspirare alla
libertà.
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