Ci sono donne in carne ed ossa e donne nate dalla fantasia di uno scrittore. Un giorno un libro finisce nelle mani di un regista e grazie a un’attrice quella donna fatta di parole trova un corpo. Poi gli occhi di una bambina guardando uno schermo e scoprono che quella donna più che un corpo ha trovato due occhi. La bambina cresce e la donna fatta di parole, di un corpo e di due occhi diventa uno specchio. La donna così creata è unica, diversa per ogni persona che la incontri e che la faccia vivere nella propria fantasia.
Chi di voi sa chi è miss Golightly? Holly Golightly. Il nome dice poco a molti, ma di Colazione da Tiffany in pochi ricordano qualcosa che non sia lei. Incredibilmente interpretata, o forse vissuta, da Audrey Hepburn. Non parlerò né della storia né dell’attrice, ma solo di Holly, che è immensa, nel suo fischio per chiamare un taxi e nel suo potersi pagare sempre tutto il whiskey che beve. Non vi rimanga di lei solo l’icona di bellezza ed eleganza, perché l’eleganza di Holly nasce dalla sua precarietà e dalla sua mancanza, non dall’incontro con i vestiti Chanel, che pure non è poco. Miss Golightly, di cui tutti si innamorano e che nessuno ama, è elegante perché il suo dolore è profondo e leggero, come le colazioni fatte davanti alla vetrina di Tiffany per far svanire le notti “con servizio alla toletta” (che ipocrita e tenera frase ha inventato il doppiaggio italiano degli anni cinquanta per accennare alla prostituzione senza scandalizzare nessuno) e come le piume che volano sul suo letto dopo aver rotto il cuscino durante uno dei pianti più struggenti della storia del cinema. Il pianto dirotto per quel fratello amato, lontano, che “non era scemo, era solo tanto lento”. Il pianto che nessuno tra amanti, futuri mariti, innamorati segreti è stato capace di ascoltare fino a quando si è placato. Holly è elegante perché la sua cifra è la malinconia ma la riconosci dal sorriso, dallo stupore, dalla missione di fare solo cose mai fatte prima, come sposarsi, scappare a New York, andare in una biblioteca. E poi “è una matta vera, Fred bello”, il che non è cosa da poco. In Holly c’è tutta la precarietà, la paura, la malinconia, la libertà, la follia, la bontà d’animo, l’ingenuità, la sincerità insita nella sua scelta di fare da sola. E anche se sembra non farcela mai lei è lì, emblema di libertà, ad aggiustarsi il rossetto prima di apprendere l’ennesima brutta notizia, l’ennesima prova della vigliaccheria della gente di buon senso. Pronta ad affrontare un altro viaggio ed altre paturnie, quelle che “no, sono terribili, come un’improvvisa paura di non si sa che”. Nel film si arrende, nel romanzo no, scappa ancora una volta dagli aggettivi possessivi, da quel “sei mia” che per alcuni è sinonimo di amore e per altri lo start per i cento metri piani. Ma mi sento di dare un consiglio a Fred bello, se davvero nel mondo dei sogni lui e Holly hanno scelto di amarsi. Si tolga quell’aria da superman, non pensi che lei sentendosi sua non avrà più paturnie, non vorrà più scappare. Ami la sua precarietà prima di amare lei, ami le paure che hanno reso quegli occhi così belli, impari a correre veloce quanto lei... e coraggio, il partito mondiale delle donne anti-aggettivo possessivo fa il tifo per voi! E che in eterno suoni moon river…
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