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Le storie di Rainbow

La limousine


Sono seduta nella hall di un albergo a 3 stelle.
Ho un vestito forse un po’ troppo stretto e il rossetto sgargiante color ciclamino, per niente a tono col verde pistacchio e l’abbronzatura integrale. Mi piace mettermi in situazioni tra il divertente e l’irriverente. Una specie di sciarade, per testare quanto il mio prossimo interlocutore sia pronto a saltare il preconcetto dell’immagine.
L’abito non fa il monaco, si dice. Ma una cosa è dire, ben altra capire.
Il divanetto sul quale attendo l’economo si abbina bene con l’aria provenzale della struttura per pensionati in vacanza. Un paradosso senza eguali. Pensionati in vacanza.
Sono stata contattata perché voleva rivoluzionare il menù. Disse: «Mi serve qualcuno che possa dare una nuova prospettiva a questa cucina antica e ripetitiva, una prospettiva salutista ma, allo stesso tempo, impegnata e originale».
Pensai: “potrei proporgli un brodo in gelatina, così non risucchiano mentre aspirano con la dentiera”.
Mentre aspetto un vecchio bavoso mi guarda i piedi, gingillandosi.
Il clima è da ultima spiaggia. L’economo non arriva e io mi sollevo, pronta ad andare via. Sento una voce alle mie spalle: «Mi scusi? È lei la signora Ginger Rossi?». Penso: “l’economo è stato colto da perdita di memoria fulminante”. Mi giro e, di fronte a me, un uomo, bello come il sole, vestito nero lucidissimo, venticinque anni al massimo. Sullo sfondo, dietro la vetrata d’ingresso, una limouisine bianco perla, abbagliante.
Ho due centesimi di secondi per decidere. Non so perché, col collo in tensione dico: «Sì, certo!». L’autista mi guarda soddisfatto: «Prego signora, l’accompagno».
Salgo, e con un colpo d’occhio noto: interni in radica di rovere, frigobar con cristallo trasparente al posto dello sportellino, tv al plasma. Trasmette solo documentari sulla seconda guerra mondiale. Treni colmi di bambini che le SS facevano esplodere appena dopo la partenza, solo per riprendere le reazioni delle madri. Mi sale una specie di conato vuoto e chiedo di spegnere. L’autista esegue, aggiungendo un “capisco” che io, invece, non capisco per niente. Non mi accorgo del tempo che passa, quando la macchina rallenta e io vengo colta da un brivido che si disperde lungo le braccia. Lo sportello si apre e di fronte a me una villa bianca, puro stile Liberty. Cancello bianco che si apre immediatamente a libro di fronte a me. I soldi si respirano misti all’odore di acacia in fiore. Un vecchio maggiordomo nero mi prende in custodia. Non mi guarda e io capisco che devo stare in silenzio.
Attraversiamo il giardino passando sopra minuscole pietre bianche. Arriviamo in uno studio con le pareti fatte di libri. Dipinti che partono dal ‘300, un vecchio mappamondo grande come una fiat 500 e, dietro la scrivania, un quadro che tradisce l’inconfondibile mano di Munch. La paura, mentre aspetto, mi assale. La curiosità è maggiore della voglia di scappare.
Arriva Lui. Orologio a cipolla e panciotto con i bottoni che gridano aiuto. Si siede e mi guarda, muto. Lo guardo, con lo sguardo più vitreo che possa fare. Asserisce, senza alcuna tonalità: «Lei non è la signora Rossi». Gelo. Lo guardo e rispondo serena come una pazza:  «No, non sono io». «Bene, cara signora dall’abito color pistacchio, lei ha superato brillantemente la prima prova».
È l’ultimo erede in vita della famiglia di Hitler e le serve una bella donna per completare la dispersione dei filmati che attesterebbero il suicidio del fürer.
“Bene, benissimo, una cosa semplice”. Avrei di gran lunga preferito studiare i nuovi menù per l’ospizio/albergo di lusso. Ma la somma che mi offre è sicuramente proporzionata al lavoro che devo compiere. Posso finalmente vivere metà anno in campagna e l’altra metà sulla scogliera. Comprarmi tutti gli animali della fattoria, anche quelli esotici, avere una piccola barca a vela con skipper incorporato. Fare il giro del mondo ottanta volte.
«Va bene», dico. Domani prenderò l’aereo privato per la Svizzera. Poi andrò alla banca centrale, digiterò il codice di 12 cifre imparato a memoria e ruberò quelle cassette senza che nessuno abbia il minimo dubbio sulla mia identità.
«C’è solo un problema, caro signor Hitler, la mia impronta digitale». Mezz’ora dopo mi ritrovo su un letto d’acciaio, freddo come un ghiacciolo alla menta. Mi stanno trapiantando delle impronte digitali finte. Chiudo gli occhi, incredula, come incastrata in una realtà da incubo. Mi risveglio, e le mie mani sembrano sempre le mie mani, solo un po’ più lisce.

Digito il codice a 12 cifre, appoggio la mano sullo schermo. Apro la cassetta con estrema facilità e, mentre penso: “che bello sta andando tutto liscio”, dalle pareti arriva una voce: «Cambio quei due nastri per un milione di dollari». Non ho una goccia di sangue che mi scorre nelle vene. Rispondo un no secco. “Bene, era un tranello”, penso. Da una porta che non avevo assolutamente notato esce il ragazzo che mi aveva trasferito dall’albergo alla villa. Mi guarda negli occhi, un velo di malinconia, e la sua pistola attraversa il mio petto con un colpo solo.
Muoio senza sapere che io ero davvero la signora Rossi, ultima nipote della più grande famiglia ebrea di produttori cinematografici.

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