Un accidente di regina.
Va sempre di fretta. Incede con
passo deciso, quasi marziale, ma curiosamente intriso di grazia femminile.
Attira lo sguardo il suo muoversi. Fiera, bella, molto bella. Indossa il
costume con orgoglio. Si distingue da tutte le altre donne per la cura della
camicia bianchissima, con le ampie maniche inamidate. La gonna ricca con la
balza rosso sangue, i tessuti preziosi e i gioielli abbinati. Una grande
libellula iridata. E’ lo sguardo che stona, contornato dalla benda bianca. Torbido,
profondo e cupo, come di animale inferocito pronto all’attacco. Un’occhiata che
scarnifica l’anima, la sua, e che in pochi sanno sostenere. Tutti si voltano al
suo passare per il Corso, che così si chiama a Nuoro, non serve l’ulteriore
precisazione di un nome ad indicarlo. La folla si fende in due ali senza
avvedersene, ammirata, forse suo malgrado. Le scarpette di broccato fiorito
risuonano di autorevolezza sul selciato di granito, accompagnate dal tintinnio lucente
dei bottoni sugli avanbracci. Un gran bel vedere quando il maestrale soffia
teso, e le incolla gli abiti al corpo, e mette in rilievo un seno florido,
celato a stento dalle pieghe della camisa.
Rotondità appetibili su cui in tanti hanno fantasticato invano. Una figura
atletica e scattante, di chi conosce la fatica fisica, che la esercita
quotidianamente, e non la teme, anzi la sfida caparbia. Un’acrobata sul dorso
del cavallo, guidato senza sella, con la sola forza dei calcagni e delle cosce
nervose. E’ lei il fulcro della famiglia, tutto parte da lei e viene
organizzato con febbrile meticolosità. Ha scelto di restare in città perché non
si fida di nessuno. Sa di essere l’unico collegamento possibile dei due fratelli
con la società. Li assiste con estrema dedizione, provvede ad ogni loro bisogno
materiale, perché non abbiano a patire troppo, alla macchia. Ne cura gli
interessi, i contatti, ne programma l’azione criminale. Si fa portavoce di
richieste, intimidazioni e minacce. Ed al calar del buio, indossa con
naturalezza abiti maschili. Nessuno saprebbe riconoscerla dentro la mastruca e
con la berrita ben calcata sul capo,
la barba finta, imbracciando il fucile in un galoppo forsennato. Ma sanno. Tutti
sanno. A Nuoro e nel vasto circondario sanno tutto di lei, di come per amore
del padre Giuseppe e di Elias e Giacomo abbia rinunciato a farsi una vita sua,
un suo nido di affetti, ad essere amata. Non ne sa concepire nessun altra di
famiglia oltre a quella che ha contribuito ad arricchire, di terre e bestiame,
nella più sfrontata illegalità, scacciando l’originaria povertà come un cane
rognoso. Di come molto presto abbia assunto il ruolo di padrona di casa,
assoluta, in senso isolano. Incute timore e insieme deferenza, per le forze
dell’ordine è una spina sul fianco. “Sa
Reina” la chiamano. E’ giovane Maria
Antonia, ma già scellerata come un bandito maschio inselvatichito dalla
latitanza. Non la sfiora mai il dubbio che il suo mondo sanguinario possa
essere posto in discussione. E qui sbaglia. Sbaglia nel pensare che il potere estorto
costituisca un possesso per sempre, che la sua catena di connivenze sia inviolabile.
Sottovaluta la capacità di comprensione e di operare di chi svolge le indagini,
il 67° Reggimento, anche in una terra palesemente ostile e omertosa, e con
mezzi esigui. E perde, perde tutto in un soffio. In una tiepida notte di maggio,
tra il 14 ed il 15 del 1899, quella di San Bartolomeo. Smarrisce il suo motivo
di vita, la sua spinta ad agire. I suoi beni confiscati. Al momento
dell’arresto, verso mezzanotte, si riconosce appena, scarmigliata, inebetita
dallo stupore. Non ha più la sua aria da regina Maria Antonia. Indossa abiti da
casa, è stata colta nel sonno. Un incubo lo sfrontato bussare alla porta, senza
rispetto. Tuonanti e maschie le voci della Giustizia. Lenta scende i gradini
della scaletta di legno della sua camera modesta, alla luce tenue di una
candela. Non se ne capacita: nessuno ha dato l’allarme. Un sacco vuoto ed
offeso. Per un momento lo sguardo ferito si rianima e sfugge al consueto
controllo. Si posa sulla cassapanca, che si scoprirà custodire numerosi preziosi
in finissima filigrana, mai ricevuti in dote. Assieme ad un cannocchiale ed
armi. Il padre Giuseppe le appare solo ora per quello che è: un vecchio inerme.
Tutto è perduto. I fratelli, prematuramente invecchiati, trucidati da soldati
che con pazienza infinita hanno intessuto un’imboscata, camminando al buio a
piedi scalzi, strisciando sul terreno come serpi. Un fiorire di rosso sulla
tela bianca. Maria Antonia Serra Sanna in carcere avrà per sé lunghi anni. Diciotto.
Certo il tempo per interrogarsi invano sul senso della sua esistenza passata,
sull’aleatorietà del sacrificio personale e del potere carpito, imposto in una
miscela letale di paura e di sangue. Forse comprenderà di essere stata una
regina efferata ma triste, una regina senza seguito, “un accidente mandato da
Dio sulla terra a dannazione del genere umano”.
Commenti
Posta un commento