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In viaggio - by Red


Il pullman parte all’una e dieci. È quasi da un anno che non lo prendo, ma l’orario non è cambiato. E non è un buon orario, perché per me mezzogiorno non è ora di pranzare, all’una faccio in tempo solo a prendere un biglietto e alle tre, quando sarò a destinazione, il mio stomaco starà ululando come un lupacchiotto alla luna. Arrivare puntuale ma all’ultimo minuto: inutile che mi ribelli a me stessa, non cambierò! E mi farò il viaggio con la fame. 
La stazione dei pullman è sempre lei, coacervo di gente strana, assortita in maniera imprevedibile e buffa. C’è chi ha paura delle stazioni e dei porti, io ci vivrei a inventarmi storie su chi le popola. Riconosco i miei compagni di viaggio e l’autista che ci porterà a destinazione: alcuni sono visi noti dai tanti vai e vieni dal paese, prima con le Ferrovie Meridionali e poi con l’Arst, altri hanno facce e voci su cui sono inconfondibilmente scolpiti i tratti di un’isola nell’isola, la provincia più povera d’Italia, dicono. Salgo sul pullman, saluto l’autista e mi siedo al mio posto, il primo. Mi piace star lì a vedere la strada e scrutare le facce degli autisti, che dallo specchietto spiano il pullman intero e se la ridono di gusto per buona parte del tragitto. O quando non viaggia nessuno attaccano bottone e raccontano storie. Parlano di loro, delle loro mogli, dei figli a Cagliari a studiare, dei nipoti che hanno fatto fortuna a Londra. Raccontano le storie degli operai che prendono il pullman alle quattro del mattino, quando in mondo è troppo buio e la fabbrica troppo illuminata, ma meglio così, perché forse domani si spegnerà. Poi chiedono, e si incuriosiscono della storia dell’unica giovane che fa il viaggio all’inverso, a lavorare in paese e  a riposare in città, e raccontano del figlio maggiore che si è sistemato e ha trovato un lavoro buono ed è proprio un bravo ragazzo… “Fa l’ingegnere lui, l’orgoglio di casa… E quanti anni ha lei, signorina?”. 
Mi siedo, il sole picchia dai finestrini chiusi, l’aria condizionata si sente meno del volo di una farfallina che si è posata sul parabrezza, il pullman si riempie, non ho voglia di parlare, metto le cuffie e tengo il cellulare in mano per passare il tempo. Uscire da Cagliari all’una è una rottura, gli autisti si rompono, i passeggeri si rompono, tutti si rompono, ma succede una cosa divertente: ci si coalizza in venti o trenta sconosciuti per coniare i migliori insulti per gli automobilisti maldestri o molesti che intralciano il nostro passaggio. Tutti inveiscono e nessuno si preoccupa: siamo noi i più forti, e siamo anche in tanti! Poi si esce dalla città e si attraversa un po’ di Campidano. Predomina il giallo, Capossela canta nel blu, do un’occhiata alle email, a facebook, cancello messaggi, dal finestrino non cambia nulla. Che fame, arriva la fame! Mi maledico per non aver comprato nulla in stazione, ma non mi piace disturbare gli altri passeggeri con l’odore del mio cibo. Penso a quando partivo con il pane già comprato e “spizzullavo” un coccoetto a tempo perso, ma oggi non ho nulla. La strada per arrivare a Siliqua andrà avanti per cinquanta minuti, a destra e a sinistra mi circonda il giallo di terre arse da un’estate troppo lunga, inizia a cantare De Andrè, marron di campi arati, qualche pecora che passeggia qua e là. E poi ho fame… uffa! A Siliqua non si cambia pullman, questa è la prima novità in almeno sei anni di frequentazione di questa linea. Meglio così, non mi andava di alzarmi, e neanche di perdere il posto. 
Si riparte e si punta al castello di Acquafredda, che ci guarda torvo e solitario. Ugolino, il conte intendo, si può passare da qui senza pensare a te e al tuo rodimento di cranio? La collina è peggio di quella che ha dipinto Manzoni per l’innominato, perché non c’è stratagemma sadico lombardo che possa minimamente eguagliare la tortura di arrampicarsi su pareti scoscese popolate solo da fichi d’India. I fichi d’india, rossi e succosi… che fame che ho! La vegetazione intorno al castello ha troppi eucalipti per i miei gusti, vorrei sapere chi è il genio che ha pensato di portare in Sardegna quegli alberi spilungoni come continentali, alti e senza sale, buoni solo a succhiare energia alla terra e a riempire il mondo senza regalargli profumi. Ugolino, ma avevi una colonia di koala al castello? Se no, non roderesti qualche altro cranio per cambiare sapore? 
Le prime curve son brutte, c’è chi non se le aspetta, io si, e non vedevo l’ora. Butto il cellulare in borsa, per almeno venti chilometri non prenderà, e non sono pochi pensando alla strada che ci spetta. Ora canta Battiato, scelgo io, i treni di Tozeur. Conosco la strada molto meglio delle mie tasche, che per quanto piccole contengono sempre qualche sorpresa, e proprio perché la conosco spalanco gli occhi e scelgo quella canzone. Non c’è eucaliptus che tenga, ora arriva lui, che mancava ai miei occhi come può mancare un amore lontano. Ora arriva il verde, anzi il Verde. Il mio Verde, quello della macchia mediterranea, che contiene in sé tutti i verdi del mondo, e rimane verde anche se vira dalla terra bruciata al giallo. Puntinato di rosso nella stagione dei corbezzoli, o screziato dal viola dei fiori di cardo. Spruzzato del bianco dei fiorellini piccoli piccoli del mirto o dal giallo del finocchietto selvatico. È il verde chiaro e opaco della salvia, scuro del rosmarino, forte dei tassi e dei lecci. È un verde discreto, che somiglia al verde dell’olio denso appena spremuto.  Come questo brucia la gola il mio verde disturba gli occhi di chi non ama la sua bellezza selvaggia, che brilla solo per chi lo sa guardare, nel luccicore delle foglie di olivastro e nello smeraldo delle gemme di mirto. Mi avvolge il mio verde, come avvolge le colline dolci del Sulcis, mi inebria con i suoi alberi piccoli e robusti, che si avvinghiano con rami contorti, intrecciati in abbracci impenetrabili, frequentati da poche persone dure e tanti animali durissimi. Già… "Qui ci sono cinghiali come muggini allo stagno, signorina!” mi disse un giorno un operaio. Battiato canta “e per un istante mi torna la voglia di vivere a un’altra velocità…” e curva dopo curva si snoda la strada, con a destra i resti dei ponti del vecchio treno e davanti la galleria più corta del mondo. A sinistra la stradina bianca per la cantoniera diroccata dove un giorno ci fermammo per prendere mirto per il maialetto. Curva dopo curva vedo che la diga di Bau Pessiu ha un po’ di sete, ma che i peri a bordo strada sono in gran forma. Ci fossero almeno quelle pere piccole, verdi e rosse, da cogliere e mangiare dopo averle spolverate con la maglietta… che fame! Curva dopo curva si incontrano le prime case, e poi, a destra, il bar sulla strada, dove se sei forestiera si girano tutti anche quando passi dal pullman. Entrarci per la prima volta è come un test psicologico: scopri di che tempra sei fatta. 
Ora che la strada spiana scenderà la signora bionda piena di buste, poi, quando sale il commerciante cinese con le sue mercanzie, so che ci siamo quasi. Sulla sinistra i vigneti incorniciano la strada, penso a quando, a gennaio saranno coperti dalle prime margherite e sembrerà primavera. Sulla destra mi accompagna il mio verde, fino a che non lo interrompe il grande discount giallo. Ora so che in un minuto arriveremo alla rotonda, sulla sinistra si aprirà la lunga strada dritta che porta fino al centro del paese. Guardo la strada e sorrido, il pullman rallenta per la curva. Riconosco la grossa costruzione della cantina, imbocchiamo la strada, l’autista suona il clacson in segno di saluto. Rispondono con la mano da un camioncino che porta un carrello traboccante di grappoli di uva nera. Il profumo di mosto si infiltra dai finestrini e dalle porte chiuse: da una cantina a un’altra, non c’è niente da fare: respiro, sono a casa. 
“Mi fa scendere alla prossima?” “Certo signorina, ma come sta che non abbiamo chiacchierato niente oggi?” “Tutto bene, grazie! Non ero in vena di chiacchiere, ho una fame!” “Dai ci vediamo, signorina, ci portiamo il pranzo alla prossima!”

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