Oggi è il compleanno della signora Ciccone, e la Rassegna Stronza non poteva esimersi dal festeggiarla con un bel post. Abbiamo pensato allora di fare un doppio ritratto, dopo le signore della moda… le signore della musica! non potevo soffiare Madonna a Pink, così ho scelto di fare una virata completa e passare da quanto di più innovativo si veda negli ultimi decenni all’artista della tradizione che più amo. Quindi, dopo aver fatto i migliori auguri alla regina del pop, sono pronta ad accompagnarvi alla scoperta della musica popolare sarda. Signori, ecco a voi Maria Carta! Ascoltate la sua voce e poi leggete... A baddà
Per (concepire) le femmine va meglio la sera, dopo una mangiata di cardo pisciauolo, uova e miele. Le uova per le rotondità, il cardo e il miele per il carattere.
( da “La vedova scalza” Salvatore Niffoi)
Ci sono donne grandissime che nascono in posti piccoli piccoli. Sono donne che da quando sono adolescenti trovano un orizzonte da cui guardare e aspettano l’istante giusto per spiccare il volo. La nostalgia con cui fissano in lontananza l’altrove non parla del desiderio di una fuga, ma di una struggente voglia di libertà. Le partenze di donne come queste, non sono urlate con rabbia, ma colme di immenso amore per ciò che si lascia. O meglio, le donne come Maria Carta non lasciano la loro terra, semplicemente a volte vivono altrove.
Maria naque a Siligo nel 1934 e a Siligo crebbe e cantò. Non è una cosa strana, tutti nasciamo e cantiamo: si cresce così, con una colonna sonora, con impressi suoni, voci, colori, che al pari del cibo ci si insediano nell’anima per diventarne la sostanza che la rende grande. Maria non ebbe una vita strana, e come quasi ogni bambina sarda degli anni trenta, nutrì la sua anima di campagna e canti, di lavoro e balli, e come tutti cantava e ballava, ma la sua voce non era come quella di tutti. Così i paesani le insegnarono le canzoni perché le potesse cantare alle feste e il parroco le insegnò la messa tradizionale perché potesse arricchire le celebrazioni. Maria diventava grande e cresceva con lei la voce, la bellezza, e la nostalgia del mondo, nutrita a guardare l’orizzonte dalla finestra di casa, come raccontava lei stessa. Aveva ventitré anni quando divenne miss Sardegna, ventiquattro quando si trasferì a Roma, ventisette quando, sposando lo sceneggiatore Salvatore Laurani, lasciò definitivamente la Sardegna per la capitale. Ma è l’altrove ad indicarle che la sua strada non può essere che nelle radici, e da Roma alla Sardegna il passo è breve, lo sappiamo in tante da queste parti, me compresa! Torna spesso a casa per studiare e approfondire il canto tradizionale, la vita artistica che ne scaturisce non è antica né moderna, non è folklore né campanilistico nazionalismo sardo. Io direi che quel che segna Maria Carta è destino, non scelta. Sarà attrice, voluta da Zeffirelli e da Coppola, avrà un repertorio proveniente da tutto il mondo, vivrà l’impegno politico fino a diventare consigliere comunale per il Partito Comunista a Roma, lei che confessava di pensare in sardo e poi tradurre in italiano, scriverà poesie, farà ricerca etnografica di tale valore da tenere corsi universitari a Bologna: queste si possono definire scelte. Ma la sua voce roca e profonda non appartiene solo a lei: evoca quella di intere generazioni di donne sarde, il suo amore per il canto è tale da farle affrontare della malattia, che la farà morire nel 1994, tutto tranne che le cure che le toglierebbero la capacità di cantare, e in questo gioca solo il destino. Nonostante la sua estrema versatilità sarà per sempre la voce del canto sardo, nonostante vide e conobbe tutto il mondo lei sarà comunque, fino alla fine, Siligo, nonostante la sua bellezza universale il suo nome non evoca un corpo, ma voce e capelli neri mossi dal vento.
Ci sono donne che passano l’adolescenza a volere tutto il mondo e a pochi mesi dalla loro morte dicono semplicemente “Sì, io da Siligo non sono mai andata via…”
Ci sono donne che affrontano il mondo a testa alta, stanno accanto ai nomi più grandi della cultura e della politica, meritano successo e fama e, nel giorno in cui finalmente la loro terra le celebra, non esaltano la propria grandezza, ma confessano: “Oggi mi sento piccola e come sempre con le mie enormi paure. Sono partita da qui con la volontà di cantare e portare in giro per il mondo la nostra memoria, e penso di averlo fatto con molta dignità perché non ho camminato mai da sola. Ero presa per mano da voi tutti, da tutto quello che voi mi avete insegnato. E mi avete insegnato una grande cosa, che la povertà non è importante, ma è importante la grande dignità che ognuno di noi si porta dentro: la grande dignità di noi sardi, ma insieme anche le nostre paure”.
Ci sono donne fatte di fragilità e grandezza, di pazienza e dolore, di sole e di buio, sono queste le donne di miele e cardi selvatici, dure e materne come la mia terra.
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