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Ritratto di Signora - La grande Madre by Arth



E’ bello analizzare, conoscere, raccontare le donne che ci sono vicine, che amiamo, viviamo, ammiriamo, sogniamo, e che ci sono di esempio. Conosciamo il loro valore, la loro capacità di sacrificio, di coerenza, di tenacia, conosciamo le loro fragilità, le loro vulnerabilità, la loro armonia nel coniugare pragmatismo e sogno.
A me però piace andare a guardare più indietro. Piace pensare a quando questa coscienza del femminino primordiale era talmente viva da essere spontaneo oggetto di culto.
Ventiquattromila anni fa, c’erano persone che hanno intagliato questi oggetti. A qualcuno possono apparire esagerati, deformi, lontanissimi dal concetto di bellezza trasmessoci dalle sculture classiche di epoca greca e romana, ad esempio, o dalla cultura egizia. Noi moderni le definiremmo delle “big beautiful women”, o delle bellezze “felliniane”.
La bellezza non importava a quegli artisti. Perché il sacro trascende l’umana bellezza, è generatore di bellezza in sé, quindi fonte primordiale di ogni espressione.
Chi è la Grande Madre?
E’, in effetti, una figura simbolica? Anche, ma non solo.
Gli antichi popoli vivevano confrontandosi quotidianamente con il flusso della natura. Cacciatori e raccoglitori, erano creature che vivevano immerse nella ruota delle stagioni, della carestia e dell’abbondanza,  dell’andare e venire dei frutti e degli animali, nell’alternarsi di siccità e diluvi, calore e gelo. Seguivano un sentiero che li conduceva avanti e indietro nei territori,  seguivano le loro fonti di sussistenza e il clima migliore. I loro ritmi erano dettati dal nascere e dal calar del sole,  il tempo che scorreva dalle mutevoli fasi lunari.
La Luna. Femminile come le donne che in armonia con essa erano soggette al ciclo mestruale, un continuo rinnovamento del fertile terreno ove deporre il seme della vita. La Luna e il Sole, la terra e il seme. E il sogno di ogni donna e di ogni uomo era terra fertile, ricca di cibo e di vita, sicura da predatori più grandi e potenti di loro, scimmie che da poco avevano cominciato a vestire le loro nudità con pelli altrui, per proteggersi da intemperie a cui la vita nomade li esponeva.
Così la Madre era idealizzata in quelle antiche donne dai fianchi generosi, capaci di partorire con maggior facilità il futuro della tribù, e dai seni enormi perché ricchi del latte primo nutrimento di ogni nuovo nato. Grandi, abbondanti, grasse, perché ciò evocava ricchezza di cibo, benessere, serenità. Ancora oggi nell’Africa che ha dato i natali alla nostra specie, c’è un culto della donna primordiale, della poderosa, opulenta generatrice di vita, della “mater matrona”, della capostipite.
Le antiche civiltà europee avevano sviluppato questo concetto, anche e soprattutto nei successivi mutamenti che avevano creato le prime società stanziali e agricole. Erano strutture sociali matriarcali, e le donne avevano voce e ruoli potenti, indiscutibili. Parlare di pari dignità è riduttivo; si potrebbe meglio parlare di corretta considerazione del valore delle donne.
Nel ritmo delle stagioni uomini e donne lavoravano fianco a fianco, nel governo degli armenti come nella coltivazione delle messi. Si dividevano caccia e raccolta, e realizzavano oggetti quotidiani e opere d’arte, secondo propria inclinazione e sentire. A Beltane, agli inizi di maggio, si univano nel cuore del trionfo del Sole, del seme maschile, e ad Imbolc, nel cuore del potere femminile, della vita che perdura nel gelo e germoglia alla nuova stagione, generavano le nuove vite che avevano portato in sé durante i mesi trascorsi, lavorando all’inizio come prima, conservando le forze alla fine, nei mesi del riposo dei campi, per prepararsi al rischioso travaglio della nascita.  
Come non ammirarle? Come non essere coscienti della loro forza immane, della loro magia a noi negata, irraggiungibile, incomprensibile?
I primi figli sapevano bene quanto potesse essere generosa la Grande Madre. Le vivevano dentro, e ad essa ritornavano. Mai la lasciavano. Sapevano quanto furibonda  potesse essere la sua ira,  tanto più quando avidità e dissennatezza facevano sì che di lei si abusasse. Avevano le loro donne, le loro pari, a ricordarglielo con visi arcigni, porte serrate, pubblici ripudi. Così come sapevano quanto fosse facile cadere nei loro sorrisi, nel ritmo ipnotico delle loro anche, nella loro nudità non nascosta ma vissuta come natura, come bellezza non figlia di illusioni.
Sapevano la gioia di vedere tra le loro braccia i nuovi nati,  i figli dell’unione di Sole e di Luna.
Normale quindi per loro tradurre tutto questo in un’immagine,  in un simbolo, in una perenne invocazione e ringraziamento.  
Normale per me che cerco di seguire, con gli occhi di oggi, quel sentiero tanto antico quanto per me ovvio e innegabile, vivere questa coscienza come una grande Luna nel pieno del suo fulgore.
Luce d’argento a cui io, piccolo sole, m’inginocchio riconoscente per ogni mattino che mi regala.

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