Succede che sulla metropolitana i
tuoi sensi sono attratti all’improvviso dal profumo di una vecchietta magra
magra. Sa di un misto di lavanda, fiori d’arancio, rose e sapone da bucato,
profuma di giardino. Succede che come in una vertigine ti gira la testa, e non
sei più lì, ma in un giardino. Hai cinque o sei anni e non sei sola, con te c’è
lei, che sa di lavanda, fiori d’arancio, rose e sapone da bucato.
Mi prende per mano e
attraversiamo il giardino. Quanti fiori! I cespugli di sterlizie sono più alti
di me, mi incantano con i loro colori, ma la sua mano calda mi spinge ad andare
avanti. Sollevo lo sguardo, il suo viso ha così tante rughe che non le saprei
contare, gli occhi si strizzano per la luce forte del sole, ma comunque
guardano avanti. Cammina scalza per il giardino, attraversiamo gli aranci, i
melograni, gli albicocchi. Si sente chiocciare.
Se penso alla sua voce la ricordo
come fosse passato un giorno, mi dice “andiamo a vedere se c’è un ovetto”. Per
il resto non la ricordo parlare a lungo, non ricordo che mi facesse tanti discorsi,
ricordo che mi prendeva per mano e mi portava a vedere le cose ed io,
timidissima, in silenzio, con lei guardavo il mondo, e imparavo.
Imparavo che le uova sono di un
tepore meraviglioso quando le prendi dal pollaio e che vanno tenute bene,
altrimenti cadono, ma non bisogna stringerle, se no si rompono. E così capivo
che per esser donne non basta avere un piglio solido né delicato, bisogna
essere entrambe le cose, insieme.
Poi mi portava nel corridoio
assolato, accanto a ogni porta una pianta da interni, mi faceva pulire le
foglie larghe con un panno morbido appena umido, “solo la parte lucida però,
ché dall’altra le foglie respirano e se le bagni le manca l’aria”. Così imparai
che la cura è fatta di carezze e pazienza, ma anche rispetto, perché a volte si rischia di togliere l’aria, anche
senza volerlo.
Quando curava il giardino era un
incanto: tagliava, potava, zappava, bagnava e sussurrava parole che non ho mai
capito, stando a piedi scalzi sulla terra. Non c’era gesto che non fosse
sicuro, non una piccola esitazione, e il giardino per questo l’amava. Nessuna
pianta poteva resisterle, dalle ninfee ai melograni, e il suo passaggio
significava fioritura certa, come fosse una fata. Così imparai che i colori non
possono scoppiare nel mondo senza un pizzico di magia.
Ricordo che portava sempre i
capelli divisi in due trecce che fissava con delle forcine alla testa come una
coroncina. Ricordo la prima volta che la vidi con i capelli sciolti: si stava
pettinando. Lontano dallo specchio le sue mani si muovevano veloci e sicure ad
intrecciare i capelli lunghissimi e grigi, e in un minuto era di nuovo
perfetta. Così imparai che una donna non ha bisogno di guardarsi allo specchio per
vedersi e per sapere chi è.
Qualche volta andavamo a fare la
spesa. Ricordo la camminata in silenzio con il carrellino marron, per via
Enrico Toti, “attenta qui” quando attraversavamo in piazza Italia e poi il suo
muoversi sicuro tra i banchi al mercato, e il giro fuori, alle bancarelle. A
volte comprava qualcosa e mi diceva di non dirlo a nessuno. Ora so che
sarebbero diventati regali per le mie sorelle o per i miei cugini quando fosse
arrivata una festa, ora so che così sicuramente sono nate le mie bambole più
amate, portate per me da Gesù Bambino, a casa sua. Così ho imparato che se hai nel
cuore le persone incontri ogni giorno un piccolo dono per loro.
La ricordo d’inverno affaccendata
intorno a una vecchia cucina economica, o a sistemare i carboni in un braciere
di ottone, sempre operosa, sempre in silenzio. Così ho imparato che non c’è
bisogno che tutti vedano quello che si fa, basta fare.
La ricordo poi negli anni più
tristi, della malattia e del dolore, la ricordo stanca accorrere al richiamo
del marito che ormai non ci riconosceva più e la chiamava mamma. Così ho
imparato che a volte la vita è dura, eppure il giardino continua a fiorire.
Ricordo la penultima volta che la
vidi. Era la prima volta che la vedevo a letto. Ricordo la fatica nel
respirare, ricordo la sofferenza che le si leggeva negli occhi. E ricordo la
carezza che fece al mio viso, senza dire nulla. Quel giorno ho imparato a fare
le carezze.
Ricordo l’ultima volta che la
vidi, i suoi tratti di nuovo rilassati, le rughe fitte ma appianate, le trecce
perfette, il vestito semplice. Tutti piangevano, io non facevo che pensare che
era bella, e che stava bene. Fu così che imparai che la morte è triste ma può
portare serenità.
Sono passati quasi ventitré anni
da quel giorno di agosto, io allora ne avevo nove, oggi sono una donna. Eppure ho
ancora scolpito negli occhi il suo viso, che spesso è tornato a trovarmi nei
sogni, il suo profumo lo riconoscerei tra mille e chiara ancora oggi è la
percezione della mia mano nella sua. Mi sembrava magica, ora sono certa che lo
fosse, e penso a quante cose ancora avrei potuto imparare da lei, quanto
sarebbe preziosa oggi la sua presenza.
Io non sono brava nel silenzio,
dimentico troppo spesso di dare l’acqua ai fiori, approfitto di qualunque
superficie riflettente per specchiarmi. Sono una frana in economia e anche se
voglio stare in disparte finisco per attirare l’attenzione.
Eppure un giorno guardandomi allo
specchio ho scoperto una ruga in mezzo alla fronte, che racconta di tutte le
volte che strizzo gli occhi guardando verso il sole, e ho pensato che vorrei che
il tempo fosse un ragno, per tessere sul mio viso una tela. Vorrei che la
vecchiaia si leggesse scolpita sul mio viso come la somma di tutte le mie
risate, di tutti i miei pianti e del sole, per non dimenticarli mai e per poter
raccontare anche se un giorno non fossi più in grado di parlare.
Una volta, uscendo di casa in
ritardo, mi sono scoperta a intrecciami i capelli mentre camminavo
attraversando il paese. Parlo con i fiori e con gli alberi, è più forte di me,
mi ritrovo ad accarezzarne, lieve, le foglie. Non posso fare a meno del piacere
di sentire la terra scura sulla mia pelle, ho uno strano istinto che mi fa
camminare più sicura se sono scalza e non mi fa pungere i piedi nemmeno se
cammino vicino alle ortiche.
Guardo una sua vecchia foto, di
prima delle rughe, mi guardo allo specchio, sorrido. Per farmi bella mi sono
tirata su le trecce, come una coroncina. Un’amica mi dice “Che bella, sei
pettinata come Frida!”, si illumina il mio sguardo, rispondo solo “no, come
Annetta. Nonna”.
Che post commovente davvero complimentissimi!Vi leggo sempre con piacere, ma questo post mi ha molto toccato...
RispondiEliminaGrazie!!! Sono particolarmente contenta, il ritratto di Annetta non era un post come tutti gli altri, almeno per me :)
RispondiEliminaPerché non provi a scriverci anche tu? Fino al 7 marzo aspettiamo i vostri "ritratti", e l'11 marzo alle ore 18,30 in via Lamarmora 123 a Cagliari faremo delle letture! Ti aspettiamo!