by Violet
Il 6 febbraio era il sesto compleanno
della nostra nipotina. Red è in trasferta, per festeggiare questo
importante genetliaco. La mattina successiva sono arrivate nella mia casella di posta
delle foto: tanta neve e due pupazzi, uno con scopa e cappello, probabilmente
opera di altri due nipotini lontani. Non nipoti di sangue, ma nipoti del cuore.
E quindi non meno importanti, né meno cari. Hanno otto e cinque anni queste
altre stelle che illuminano il mio firmamento, tracciando la parola zia. Sabato
e domenica, poi, Red sarà da altri nipotini, nove, sei e cinque anni. Anche
loro come quelli appena descritti.
E allora la mia mente vaga,
pensa, nei suoi giri svirgola al largo per poi fare ritorno… e batte e ribatte
sullo stesso punto. Sono zia, di sangue e di cuore. Sono una zia fortunata
perché i miei nipoti sono belli, forti, sani, gioiosi e allegri. Se penso
all’emozione con cui ogni volta ho saputo del loro ingresso nel
mondo, mi viene la pelle d’oca (e chi mi conosce sa che non è una metafora!!!):
mi emoziono di nuovo allo stesso, identico modo. Sono una zia presente, ho
pensieri per loro, mi interesso, seguo il loro percorso. So cosa piace ai miei
nipotini, ci sono tra noi dei piccoli riti, delle cose che fanno solo con me,
nostro territorio, la nostra “isola che non c’è”. Io li amo, ognuno in modo
diverso, perché ognuno è diverso. E loro amano me… e anche quando le
circostanze ci portano lontani sappiamo che il nostro amore è e sarà un
bagaglio comune da cui si può e si potrà sempre ripartire…ci volessero anche
cent’anni, per ritrovarci!
Però al giro successivo la mia
mente ritorna all’avvilente dibattito politico di questi giorni. Il nostro
Primo Ministro, il così serio e morigerato Mario Monti, dichiara: “I giovani
devono abituarsi all’idea che non avranno un posto fisso tutta la vita. Del
resto diciamo la verità: che monotonia il posto fisso per tutta la vita! È più
bello cambiare, avere delle sfide, purché siano in condizioni accettabili”.
E io in un primo tempo l’ho difeso. Sì perché io mi annoio a fare la stessa
cosa per troppo tempo. Penso che mi avvilirei a morte a conoscere i miei
compiti e le mie mansioni per i prossimi trent’anni. Scelgo tutti i giorni una
precarietà assoluta, ma non alienante. Perché preferisco essere precaria che
non essere libera di scegliere. Di scegliere di essere libera, di aver tempo
per me e per gli altri, di sperare e sognare di poter fare ciò che voglio della
mia vita, magari che sia costruttivo per me e per gli altri. Libera, anche, di
rimanere nella mia Terra nonostante tutto. E qui mi viene da pensare che, pochi
giorni più tardi, fa eco a Monti il Ministro Cancellieri, che, nonostante sia italiana e donna, afferma: “Siamo fermi, come struttura mentale, al posto
fisso, nella stessa città e magari accanto a mamma e papà, ma occorre fare un
salto culturale”. E allora penso che lei non sappia cosa voglia dire avere un
pezzo di famiglia di qua e uno di là. Penso che non sappia cosa abbia provato
mia nonna, per tutta la vita a non aver partecipato al matrimonio del primo
figlio, emigrato in Germania, e a non aver mai potuto vedere la sua casa.
Eppure lui le opportunità di vita migliori le ha cercate: non è rimasto vicino
a mamma e papà. E non l’hanno fatto neanche mia sorella e tanti miei amici:
però tutti quanti sono spaccati, divisi, tra la vita qui e quella nell’altrove
che oggi chiamiamo casa. Felici del lavoro, di quel pezzo di famiglia che è
vicino e mancanti del resto. Sempre alla ricerca delle offerte sul sito Ryanair
per poter unire i due pezzi di famiglia per le vacanze, per un week-end o per
una ricorrenza. E al termine di queste riflessioni mi viene in mente che in
Consiglio dei Ministri di queste cose ne abbiano parlato, ma nei termini che
abbiamo sentito in questi giorni. E cioè non dalla parte di tanti poveri cristi
che non riescono a mettere insieme lo stipendio di un mese con quello del mese
successivo, non dalla parte di coloro che lavorano senza essere retribuiti per
mesi perché c’è la crisi (spesso è lo stesso Stato a non pagare le commesse e
per non fallire si rimandano gli stipendi a chissà quando!). Penso che ne
abbiano parlato con la spocchia di chi è borghese nel senso deteriore del termine,
e che vede la società solo dal punto di vista della sua classe o parte sociale.
Penso che ne abbiano parlato da “persone fortunate”, ed è bello che lo siano,
non provo invidia, né vorrei i loro soldi o le loro vite. Ma in uno Stato
esistono i più fortunati e quelli meno. Anzi, questi ultimi dovrebbero essere
quelli più tutelati nei loro inalienabili diritti! Allora, come diceva un
Presidente della Repubblica morto negli stessi giorni di questo dibattito: “Io non ci sto!”. “Bisogna fare un salto culturale”: sì, lo penso anche io che
bisogna fare un salto culturale! Anzi due!
Il primo salto culturale che
proporrei ai nostri politici, e ai politici in generale, è un po’ più di
apertura mentale. Quella che non ci fa considerare giusto solo il nostro mondo,
il nostro modo di vivere, di vedere la vita, di giudicare gli altri, di
ragionare. È valido quello e sono validi gli altri. È bene che chi vuole andare
abbia la libertà di farlo e chi vuole restare ne abbia le opportunità. È bene
che, per sentirsi più sicura, una persona possa cercare un lavoro dignitoso e magari un po’
noioso, che duri nel tempo e non faccia vivere in perenne ansia. Sarebbe
bello che gli altri se la giocassero ad armi pari, con pari opportunità,
rischiando, provando, mettendoci curiosità, idee e un pizzico di pazzia;
progredendo e facendo progredire il mondo! E non ci sono nemmeno due soli modi
di vivere: starebbe alla classe dirigente sognare, progettare e rendere
possibili mille modi diversi di vivere, perché la società sia più dinamica
possibile. Invece no. Hanno un’unica visione e quella perseguono, spesso senza
rendersi conto di quanto questa visione della vita sia “noiosa”, oltre che
ottusa, e rischi di avvicinarci ad un baratro culturale, se non anche
economico, dal quale non sarà facile il ritorno.
Il secondo salto culturale è un
po’ più di rispetto per coloro che si devono amministrare. Quindi un po’ più di
“amore” e fiducia per l’Italia e gli italiani. Non siamo perfetti, e chi lo è?
Ma non si cambia se non a partire da qualcuno che crede in te, ti conosce nei
pregi e nei difetti, e, per ciò, sa trarre il meglio delle tue potenzialità per
portarti ad essere appieno ciò che sei solo in potenza. Perché, sarò una
romantica, ma la classe dirigente di un Paese serio sa anche prendersi la
responsabilità di avere un ruolo educativo! Io, che tra le altre cose faccio
educazione, credo nei ragazzi: se non investissi in loro ogni giorno e non
facessi un adeguato aumento di capitale per fronteggiare le emergenze e le
crisi, avrei perso in partenza. E loro? Ci credono o sono dove sono pensando di
aver perso in partenza?
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