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Capita anche questo: che le anatre abbiano il becco. By Red


"Io conosco un pianeta su cui c'è un signor Chermisi. Non ha mai respirato un fiore. Non ha mai guardato una stella. Non ha mai voluto bene a nessuno. Non fa altro che addizioni. E tutto il giorno ripete come te: <Io sono un uomo serio! Io sono un uomo serio!> e si gonfia di orgoglio. Ma non è un uomo, è un fungo!"


Pensa e ripensa mi chiedo: perché cambiano le persone, i motivi, le età, i rapporti, ma si torna sempre allo stesso punto? E il punto è: cosa c'è di strano se il rosa è rosa, se il rosso è rosso, se un'anatra ha il becco? E a che nuoce l'altrui felicità?
Non parlo della fortuna sfacciata, che pure dovrebbe creare gioia condivisa, ma parlo della felicità: quella naturale, quella che si alterna al dolore e che col dolore convive. La felicità che esiste perché si è vivi, perché splende il sole, perché si deve vedere un amico, perché si ama qualcuno o qualcosa. La felicità che costa cara: impegno, volontà, coraggio; quella che va difesa, protetta come un bimbo perché è tanto forte quanto fragile, e si infrange sulle delusioni, sui muri che la disprezzano e si nasconde a lungo dietro una nuvola di solitudine. Quella che con un abbraccio è pronta a far di nuovo capolino, e che quando cade, come una fenice, sempre risorge, perché semplicemente così deve essere.
Ecco, questo genere di felicità, così profondamente umano, così complicato, così poco invidiabile, perché non riesce a trovare solidarietà? Perché si tenda a celarla e a vergognarsene io non lo capisco.
Mi sembra che sia uno strano vezzo dell’età adulta quello di ostentare il proprio malumore. A volte si misura l’importanza delle cose che si fanno in base al loro grigiore, ci si gonfia di orgoglio e ci si sente importanti a seconda di quanti minuti di sorrisi si sono sacrificati sull’altare del lavoro, o della famiglia, o della politica, della religione, e ci si auto santifica dopo essersi auto martirizzati. Invece il sacrificio, io penso, sarebbe più utile cosparso di sorrisi, perché è vero che l’abnegazione e l’amore a volte sono stanchi e malinconici, ma sono comunque sorridenti e realizzati. E il martirio non è mai un suicidio, oltre tutto. Quel che ancora meno capisco è perché ci si arrabbi col sorriso degli altri, che non nuoce, e che male che vada toglie un concorrente a questa gara di tristezza incazzosa che va tanto di moda. Se sia invidia, cattiveria o ottusità io non lo so, e oggi neppure lo voglio capire.
Quello che so è che io diffido di chi non sa giocare, diffido di chi si è dimenticato l’infanzia, di chi non sa inventare storie, da chi non si illumina all’improvviso davanti a una bambola o a un trenino. Non mi fido minimamente di chi non si commuove, non si arrabbia, non scoppia a ridere. Diffido di chi parla sempre sotto voce, di chi si vergogna a cantare, di chi non ha mai avuto un amico immaginario, o peggio, lo ha dimenticato. Diffido di chi non guarda sé stesso e gli altri con sguardo profondo, di chi non perdona. E non sopporto, ma proprio non sopporto più chi biasima le oche perché hanno il becco, gli usignoli perché cantano, i pesci perché sono muti. Chi guarda dritto all’essenza degli altri e ci spara su, così, per giocare allo stronzo più grande e poi si scandalizza se qualcuno risponde giocando all’impiccati più sentito.
La propria essenza ognuno la paga di persona, e di persona ne può ottenere il meglio se la vuole coltivare: non necessita di complimenti né di riprovazione, semplicemente c’è, a prescindere da tutto. Al massimo la si può amare, consigliare, aiutare. Altrimenti si possono girare i tacchi e lasciar perdere, anche questa è una possibilità.
Io che son rossa, penso al prototipo di rossa, che non è Jessica Rabbit ma Cappuccetto Rosso. La mamma ha fatto bene a consigliarla, ma lei doveva andare nel bosco, doveva parlare col lupo, doveva cogliere i fiori , respirare quell’aria, vivere quell’avventura. Mi piace pensare che il cacciatore l’abbia mandato la mamma per seguire la sua bimba, a proteggere da lontano chi, purtroppo, doveva sbagliare un po’ prima di imparare a custodire al meglio la sua bellissima dote di curiosità e coraggio incosciente. Mi piace pensare che dopo il “vissero sempre felici e contenti” la mamma l’abbia sgridata per bene, ma sia stata in verità sempre orgogliosa di quella figlia intrepida e rossa.

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