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L'archeologia vista da Red

Quando ero bambina l’archeologia era solo una delle mille professioni che sognavo di fare da grande: stilista di moda, direttore d’orchestra, maestra, astronauta… Crescendo è cresciuto anche il mio interesse per le materie umanistiche e per tutto ciò che riguarda il mondo antico. A differenza di Pink io adoravo la storia, nonostante la mia professoressa, e quando la studiavo non smettevo mai di chiedermi “perché”.
Penso che la mia scelta di fare ricerca stia tutta in quei “perché”: io sono convinta che l’età mentale dei ricercatori si fermi ai tre anni e credo che la loro carriera arrivi al capolinea qualora il loro cervello compia i sei anni, cioè nell’età in cui dai perché e dall’osservazione stupita del mondo si passa al “non facciamo troppe domande altrimenti non si va più via da scuola”. Dopo possono diventare degli splendidi docenti, degli ottimi direttori scientifici, ma non troveranno più l’originalità di prima.
Io, per quanta esperienza e saggezza possa aver incamerato in trent’anni, sono esattamente come quando avevo tre anni: adoro i vestiti rossi, le scarpe eleganti, se son triste mi nascondo negli armadi e chiedo sempre perché. Quando sono diventata abbastanza saggia per capire questo, ho capito che io non volevo, speravo o sognavo, ma dovevo fare ricerca.
Scegliere l’archeologia è stato il passo successivo. Indiana Jons mi piace, è vero, ma a me piace trovare quel che trovo, non quel che cerco. Lara Croft, no, non la sopporto, ma, conoscendo un po’ di colleghi, devo dire che capisco perché si porti dietro le pistole e non la trowel. Durante l’università mi sono appassionata a mille materie: ho amato la glottologia, la filologia, moltissimo la storia. Ma a differenza di Pink non ho mai avuto dubbi, perché a me piacciono il sole a picco, la terra e gli insetti.
Per quanto ami lo studio, mi sento in gabbia se non posso lavorare anche fisicamente. E poi io voglio vedere tutto: tutto quello che gli altri vedranno pulito e restaurato io lo voglio vedere dov’era, voglio su di me la responsabilità di trovarlo e documentarlo, di tessere personalmente i nessi logici da cui potrà scaturire l’interpretazione anche degli altri. Io con la storia voglio condividere la polvere sulla pelle, voglio guardarla da prospettive precarie e mutevoli, e non mi importa la vecchia storia degli archeologi che si “mangiano” gli strati: in tutte le professioni esiste chi farebbe carte false per il proprio interesse, come in tutte le professioni esiste chi farebbe di tutto pur di non tradire la deontologia.
Detto questo, è vero che anche io, come Pink, vorrei fare una scoperta che cambia la storia e vorrei scrivere il libro che tutti gli archeologi devono leggere. Nel frattempo porto avanti il mio lavoro con entusiasmo, e, anche se a volte mi chiedo perché non ho aperto una cioccolateria uguale a quella di Vianne (in Chocolat), mi diverto a lanciare i vermi verdi nella carriola del vicino, a sfogare la mia ira distruttrice sugli strati sterili, la pazienza in quelli “buoni” e mi riconcilio col mondo chiacchierando con i colleghi a fine cantiere: con birra ghiacciata e patatine, ovvio.

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