La veglia della madre
Guardami.
Tu forse non lo sai che cosa è
accaduto, ma lo intuisci. Mi vedi, chiusa in me, pietrificata. Non mi
dimenticherai. Mai. L’immagine del mio dolore non ti lascerà. E’ scolpita
minuziosamente. Ogni più piccolo affondo dello scalpello è l’eco ampliata del
mio strazio. Mi raggruma il corpo, che non ha più la forza di estendersi. Un’energia
nefasta si è impadronita di me, e mi trascina impietosa verso la terra. Mi
accoccolo qui, vicino a te. Abbranco le ginocchia perché non tremino. Le mie
mani ossute e nervose, i tendini tesi, oltre i polsini della camicia che
fuoriesce dallo zippone. Il collo svuotato, e alla fine, sul colletto largo sul
petto, due bottoni in filigrana. Scalza, come una penitente. I piedi abbruttiti
dal lavoro. Ma è tutto inutile ormai. Ogni mio gesto è sofferenza. Quell’ombra
che vedi sui miei occhi non è data dal fazzoletto calato in avanti. E’ l’oscurità
del mio cuore dilaniato. Stringo le labbra fino allo spasimo, la contrazione crea
una rosa di rughe amare sulla mia bocca. Che non si poserà più sulla tua tempia
tiepida e pulsante, nel mio bacio materno. Non la posso aprire, adesso. L’urlo
trattenuto, fuoriuscendo libero, farebbe tremare la montagna. Dove ti hanno
ucciso, figlio mio. Ti ha tradito e li ha nascosti. I tuoi assassini. Io ho
temuto tanto, sempre. L’uomo non perdona, e non dimentica. Punisce e cancella
la vita. Usa lame e fuoco. Tranelli e crudeltà. Sparge sangue. Mai pago di
vendetta, che anzi si rigenera ad ogni nuova morte. Ma a me, da ora, nessun
fuoco potrà mai più infondere il calore perduto. La tua assenza dominerà i miei
giorni, che risuoneranno, finché avrò respiro, del mio urlo muto. Nella fissità
del mio sguardo l’immagine del tuo corpo offeso. A me, non resta che vegliare,
raggomitolata.
“La madre dell’ucciso” nasce da
una vicenda reale che Francesco Ciusa visse nel corso della sua infanzia, e la
cui immagine, per sua stessa ammissione, non lo abbandonò mai.
Commenti
Posta un commento