In punta di piedi e sottovoce
Un caschetto corto, spesso arruffato,
che tratteggia le ciocche come spicchi argentei di luna, ad incorniciare il
viso minuto. Tondi, gli occhi, di quelli che disegnano i piccoli. Scuri. Fitto
fitto il reticolo di segni che la vita traccia mentre cammina. Esile, sottile, anche
nella voce. Ma seduttiva. Talvolta un susseguirsi incalzante di concetti, disarmanti
nella loro semplicità apparente. Una voce guida, da vero aedo, alla cui
fascinazione è impossibile sottrarsi. Ma non solo a parole si può raccontare,
le parole supportano le immagini, che si originano, si intrecciano, percorrono
le strade inattese della fantasia. Come quando con una cannuccia si soffia su
una goccia di inchiostro di china su un foglio bagnato, e si osservano,
stupefatti, le immagini che ramificandosi prendono forma.
Può accadere, da bambini, di
essere gracili. Un po’ più raramente, per fortuna, che le condizioni di salute
non consentano di frequentare l’asilo o la scuola, e di essere allontanati dal
paese di nascita, per giovarsi dell’aria buona del mare nostro. Un tempo non
molto lontano da noi, diventare “fill’è
anima”, era frequente. Così Maria, fu
ospitata a lungo dagli zii, che non avevano figli, nella loro grande casa a
Cardedu. Schiva, solitaria, cresce libera, in mezzo alla natura ed ai suoi
grandi spazi. Tra i suoi giochi prediletti il disegno, che esercita
all’infinito con i pezzetti di carbone sottratti al camino. I fogli le grandi
pareti bianche della casa, che gli zii provvedevano regolarmente a ripassare di
calce, perché potesse esprimersi ancora, ed ancora. Non a tutti capita di avere
come vicini di casa gli zingari. Nei loro carrozzoni, bloccati lì dalla guerra,
e in attesa di imbarco. Pieni di bambini, dove ci si esercita quotidianamente nelle
acrobazie più spericolate. Tipologie educative differenti, ma di incanto assoluto.
E infatti Maria prova ad andare via con loro. Ma viene riportata a casa, senza
alcun rimprovero. Chi ama comprende. Lontana dalla famiglia propria, si dilata
il tempo dell’infanzia, e la sua magia. Un guardare diverso, fiabesco, il suo,
immaginifico. Salta Maria, fin da piccola, salta le consuete tappe della vita.
Salta i luoghi, le persone, gli incontri. Le convenzioni. Studia, in ritardo,
ma con un grande slancio di recupero. Sente di essere chiamata ad esprimersi, è
piena di dubbi, non sa ancora in che modo, e quando, ma sa bene che deve farlo.
Così si trova a frequentare le scuole secondarie, a Cagliari, ormai
grandicella. Sa solo compitare, dice. E qui avviene uno dei suoi primi incontri
felici, la vicinanza di tutta una vita. Salvatore Cambosu, suo maestro, non si
fermerà a ciò che sembra. Comprenderà il potenziale nascosto di questa bambina
ai margini della socialità, selvatica e con apparenti deficit di apprendimento.
A lei insegnerà il ritmo della poesia e della metrica latina. Agevolerà, per
tutta la vita, il suo sbocciare. Sosterrà la sua sete di sapere, fugherà i suoi
dubbi di figlia. La spingerà a seguire il suo talento, a coltivarlo, ad
anteporre la sua felicità ai condizionamenti familiari, intimi, del cuore. Maria
usa un tono basso, nel parlare, anche un po’ monotono, cantilenante, così che
rimani spiazzata quando sopraggiunge una risata argentina, inaspettata, di
allegria pura. Parla e racconta, spiega. Il suo pensiero si dispiega agile. Le
idee si rinsaldano, alla fine dei suoi racconti, una dentro l’altra, come le
matriosche. In ordine logico. Sembra facile, ma lei parla di grandi concetti,
di categorie della conoscenza, con una naturalezza che sconcerta. Mani abili che
padroneggiano tecniche e materiali diversissimi, con il sapere tradizionale dell’isola
alle spalle, o meglio come radice. Mai tradito, ma amato con dedizione. Disegni
a matita, pani di ceramica, telai, storie cucite, opere temporanee. Una
produzione vastissima, intervallata da lunghi periodi di crisi, e di silenzio.
Ma la fantasia che la abita non può stare a lungo inespressa, trova nuove vie,
inconsuete, per dire. Sempre modesta. Diceva di sé: “Ho capito di dover
camminare in punta di piedi e parlare sottovoce”. Gioca, tutta la vita, Maria.
Ma non è bello giocare da soli, il gioco condiviso decuplica l’interesse,
amplia l’orizzonte, rivela prospettive impensate. Diverte e coinvolge. Una
famiglia che la sostiene nella sua “bizzarria”, soprattutto il padre
veterinario, che sa bene che esistono spiriti liberi, che non si possono
ingabbiare. L’indole domina. Studia Maria. Va fuori dall’isola. Prima a Roma, a
frequentare il liceo artistico, poi a Venezia, all’Accademia. Unica donna al
corso di scultura di Arturo Martini. Che cercherà con caparbietà crudele di
distoglierla, invano. Maestri autorevoli, importanti. E severi, poco propensi a
vedere una donna nel mondo dell’arte. In anni duri, di guerra. Ancora incontri.
Uomini eccezionali. Artisti di fama internazionale, scrittori antropologi amici
delle donne, come Giuseppe Dessì. Maria è sempre alla ricerca di nuove forme
espressive e ha la volontà ferrea di insegnare come guardare l’arte, saper
comprendere i suoi criteri espressivi, fin da bambini. Tante storie, grandiose,
metaforiche. Opere effimere, con grandi coinvolgimenti di persone, come
“Legarsi alla montagna”. Poi, verso il tramonto, altri dolori, oltre alle
numerose e premature perdite familiari. Quelli del tradimento e dell’avidità
degli uomini. Forse la definizione più calzante e tenera è quella del padre,
che diceva di lei che fosse “una capretta ansiosa di precipizi”. Una
dichiarazione d’amore per una figlia specialissima, spregiudicata nelle scelte,
ma artista vera, che ha usato i suoi sogni per costruire forme concrete. Più
volte è stata visitata dalla malattia. Fin dalla più tenera infanzia ha fatto
temere per la sua sorte. Ma la vita ha una fantasia sbrigliata, imprevedibile.
A lei ha destinato una longevità sorprendente, perché amava ascoltarla.
In ricordo di Maria Lai, che da quasi un anno guarda da
lassù.
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