tu cantavi: “…che
non si muore per amore è una gran bella verità…” e, forse, ai
tuoi tempi era davvero così o, forse, anzi sicuramente, si moriva
anche allora ma non se ne parlava.
Oggi, tu non ci
sei più e così anche la verità che cantavi.
Oggi si muore per
amore o in nome di un sentimento che, secondo il mio modesto parere,
tutto è tranne che amore.
Mi riferisco
ovviamente agli ultimi fatti di cronaca nera. Nei giorni scorsi,
soprattutto le donne, sono state le vittime sacrificali di questo
amore. L’ultima in ordine di tempo, una ragazzina appena sedicenne
bruciata viva perché, questo amore aveva osato respingere. Lo chiamo
“questo amore” perché, questo, amore, non è. E’ un sentimento
morboso e malato. Intriso di gelosia e solitudine, di cattiveria e
mancanza di rispetto, di voglia di possesso e ignoranza.
Sarebbe troppo
facile fermarsi alle apparenze e dire che è un sentimento maschile.
Purtroppo, ho avuto modo di riscontrare che anche molte donne,
indipendentemente dall’età, dal grado di cultura, dalla posizione
sociale e geografica, hanno questa concezione dell’amore.
Donne che si
sentono “amate” dai loro compagni solo se questi le controllano,
se impongono loro come vestirsi, cosa pensare, come vivere la loro
femminilità. Che giustificano i maltrattamenti, le violenze fisiche
e psicologiche, le vessazioni, gli stupri, perché è l’unico modo
che conoscono di sentirsi considerate. Donne che non si sentono degne
di un amore diverso. Molte arrivano a dire: “se mi picchia è
perché me lo sono meritato”, oppure “mi ha picchiato perché è
geloso” e per loro vale l’equazione GELOSIA=AMORE.
Forse, proprio da
noi donne per le quali vale, invece, la formula
AMORE=((RISPETTO+CONDIVISIONE+FIDUCIA+LIBERTA’)*2) ,dovrebbe
partire l’inversione di marcia, il cambio di rotta. Dico questo in
veste di mamma di due figli maschi. L’educazione dei figli, è
generalmente affidata alle mamme perciò, proprio noi, per prime,
dovremmo farci carico di insegnargli come rapportarsi con le donne.
Insegnandogli che le persone non sono degli oggetti e che, pertanto,
non è possibile possederle, controllarne i pensieri e i desideri.
Che le donne che incontreranno nel corso della vita non saranno delle
sostitute della mamma, che non potranno pretenderne,
incondizionatamente, l’amore, l’obbedienza e la fedeltà come se
fossero dei cagnolini. Che non avranno a che fare con delle serve che
gli staranno dietro, pronte a far fronte a qualsiasi loro esigenza.
Purtroppo, la
nostra cultura vede ancora il maschio in una posizione predominante e
la femmina in una condizione di sudditanza.
Quando nasce il
figlio maschio nelle famiglie è festa grande. Quando nasce la figlia
femmina è quasi un lutto.
Nonostante tutte
le battaglie che hanno combattuto e quelle che stanno combattendo
(non possiamo dimenticarci Franca Rame, scomparsa proprio ieri, e
ricordiamoci di Amina, arrestata per aver manifestato in Tunisia,
giusto per citare gli esempi più vicini in ordine temporale)per
ottenere la parità dei diritti e delle opportunità, nonostante
tutti i risultati degli studi e delle statistiche, le donne, in
qualsiasi ambito, sono sempre un gradino più in basso rispetto agli
uomini.
Ma parliamo del
binomio donne&lavoro, che in questo momento, è uno dei temi che
mi sta personalmente più a cuore. Nel lavoro, a “parità” di
mansione e di ore lavorate, le donne percepiscono stipendi più
bassi. In alcuni settori, non possono nemmeno ambire a ricoprire
incarichi manageriali o dirigenziali perché di prerogativa
unicamente maschile.
Le donne si
trovano continuamente a fare delle scelte di cuore.
Maternità, questa
sconosciuta!
L’Italia è uno
degli stati con il più basso indice demografico. Ci siamo soffermati
a chiederci perché? Ci siamo chiesti perché le donne, arrivate ad
un certo punto della vita, si trovano davanti al bivio: “figli
si”/”figli no”? La risposta se la sono data quelle donne,
coraggiose, che hanno scelto la strada “figli si”. E’ una
strada tortuosa, in salita, piena di buche e di radici che sembrano
messe lì apposta per farti inciampare. Perché è questo che
succede. Il datore di lavoro, anche quello che si mostra più
entusiasta alla notizia della tua imminente maternità, non aspetta
altro che tu inciampi. E getta così, casualmente, sul tuo percorso,
un’infinità di ostacoli dei più svariati generi.
Vi faccio degli
esempi che mi sono capitati personalmente, giusto per rendere meglio
l’idea. Al quarto mese di gravidanza, sono stata spostata
dall’ufficio al reparto vendita. Qualcuno potrebbe anche dire che
non sembra una mancata tutela dello stato di salute della lavoratrice
in stato interessante. A questo qualcuno, vorrei rispondere che le
otto ore passate alla scrivania, in un ufficio, oltretutto senza aver
rapporti col pubblico, sono cosa ben diversa dalle otto ore passate
in un negozio, prevalentemente in piedi, a contatto con le persone, e
con un magazzino pieno più di ratti che di merce. Ho resistito poco
più di un mese, dopodiché sono stata ricoverata per due settimane
per minaccia d’aborto e ho terminato il periodo a casa, in
maternità a rischio. Ovviamente, il mio datore di lavoro si è
domandato ogni mese perché mai dovesse pagarmi lo stipendio, visto e
considerato che non stavo lavorando.
L’unica volta
che ci siamo incontrati prima del lieto evento, mi ha fatto un
complimento, dandomi della balenottera. La sensibilità e il tatto
sono sempre state le sue doti maggiori.
Al compimento del
terzo mese del bambino, sotto minaccia di imminente licenziamento,
sono rientrata a lavoro. Anche qui giù di complimenti, da
balenottera sono passata a centrale del latte o latteria viaggiante.
Ho cercato, nel
limite del possibile, di mettere dei paletti e di far valere i miei
diritti: permessi per l’allattamento e riduzione dell’orario.
Sono passati dieci anni e ancora me li rinfaccia. Dimenticavo, anche
la memoria settoriale (nel senso che si ricorda solo quello che gli
fa più comodo), è una delle sue qualità.
Vista la carenza
di asili nido e di altre strutture idonee all’accoglienza dei più
piccoli, a prezzi che non prevedessero come retta mensile il mio
intero stipendio, ritengo di essere stata molto fortunata a poter
contare, nei primi anni di vita di mio figlio, su mia suocera. A lei,
ho dovuto affidarlo fino a quando non è stato in età di scuola
materna e anche dopo, le volte che si è ammalato.
E si, perché le
malattie tue e dei tuoi figli, per il datore di lavoro sono delle
scuse per non lavorare.
I datori di
lavoro, fanno di tutto nella speranza che tu, lavoratrice madre,
esasperata, getti la spugna e consegni le dimissioni. Sanno benissimo
che dietro la porta c’è la fila di altre donne, più giovani, che
potrebbero sfruttare più di te, pagare meno di te e che avrebbero
meno pretese di te, almeno fino a quando, nel mezzo del cammin di
loro vita, non si trovassero davanti quel famoso bivio.
Ma questa è la
mia storia, non la loro…
Dicevo, sono
passati dieci anni e fortunatamente credo che, per quanto mi
riguarda, sia passata anche la fase di esasperazione da ormone della
gravidanza.
Tutto perfetto
quindi? Assolutamente no. Purtroppo la stronzaggine del mio capo non
si è affievolita col tempo, anzi! Lui continua a trovare pretesti e
appigli per fare in modo che il clima sia sempre carico di tensione.
Non ha ancora tenuto conto del fatto che, con una tensione così
alta, se mi trova in fase premestruale, potrebbe anche restare
fulminato. E si illuminerebbe d’immenso!!!
Cyan
Commenti
Posta un commento