![]() |
Foto da Web |
Cieco. Vagava cieco e
zoppo, per il mondo allora conosciuto. Cieco, senza altra identità,
ché il primo nome l'aveva barattato con la fama – epica, fulgida e
terribile fama quella di colui che uccise Bellero e liberò la Terra
dall'alito infuocato della Chimera – ed il secondo lo aveva perso
nella bramosia della gloria, nella sfida a Zeus immortale e alla sua
dimora.
Era divenuto un solitario
viandante: evitava le strade battute dagli uomini, perché non
accettava la sua nuova condizione, ed evitava il pensiero degli dei,
perché ormai aveva timore del mutare repentino del loro umore.
Avrebbe evitato anche se stesso, se avesse potuto, e i ricordi, ma
questo non sono gli uomini a deciderlo. La vita non lo abbandonava,
anzi, ogni giorno il suo corpo riacquistava un po' di forza. E i
ricordi, di imprese, di gloria, dei sogni ambiziosi e dell'orgoglio,
che aveva alimentato e sostenuto ogni azione, lo seguivano da presso,
mentre camminava, e si accostavano a desinare con lui, quando sostava
a riposare le gambe stanche. Così, le soste si erano fatte brevi e
più sostenuto il suo andare. A volte una brezza fresca e leggera
accompagnava il viaggio, dando sollievo alla pelle arsa e ricacciando
indietro dal pensiero i ricordi sgraditi. Se il vento del Nord
soffiava forte, poi, non sfidava la sua corsa, ma ne assecondava la
direzione. Il suo passo diventava leggero, sospinto dalle ali del
vento, e gli sembrava di assaporare di nuovo la libertà, come quando
le ali che lo portavano erano quelle di Pegaso, l'unico amico e
alleato che il destino gli avesse regalato. Quelle erano le sole
occasioni in cui, dopo un lungo tratto di cammino, stanco, si
abbandonava al sonno e lasciava che nel sogno l'amico alato lo
venisse a trovare, a ripercorre il cielo forti e veloci, mai paghi,
verso il sole.
La gente che lo
incontrava lungo la via lo chiamava “Vecchio”, ma ancor più
spesso “Cieco”. E forse era vero, Cieco era il nuovo nome
che la sorte gli aveva assegnato, la sua nuova condizione,
l'orizzonte di vita a cui trovare un senso, se mai ce ne fosse stato
uno.
Nei primi tempi, dopo che
fu precipitato dal cielo alla terra, disarcionato da Pegaso, pensava
che non avrebbe mai fatto l'abitudine a quella nuova condizione. Ad
ogni passo inciampava, spesso cadeva. Non percepiva gli ostacoli, né
i pericoli. I rovi gli laceravano le carni fino a farle sanguinare,
quando ci finiva dentro e doveva lottare per liberarsi. I rumori lo
angosciavano, lui che fino ad allora non aveva conosciuto la paura,
perché sembravano amplificati e non capiva la direzione da cui
provenivano. Giorno dopo giorno, però, gli altri sensi acquistavano
finezza e venivano in suo aiuto: dagli odori capiva se c'era
vegetazione, e di che tipo; dal calore sulla pelle percepiva di
essere circondato da alberi alti, o riparato da una collina, o quando
in cielo le nuvole correvano veloci oppure si fermavano per
addensarsi e aprirsi in una pioggia ristoratrice. L'udito, poi, era
diventato suo fedele alleato e, pian piano, attraverso i suoni,
imparava ad intuire il mondo: sapeva se veniva qualcuno, se era
osservato, se c'erano animali nei paraggi. I suoi incontri erano
rari, l'abbiamo detto, perché fuggiva le vie degli uomini, ma
capitava che incrociasse qualcuno lungo la strada, di fare insieme ad
un uomo o a un vecchio cane un tratto di cammino, di dividere il cibo
e l'acqua in una sosta.
Ogni giorno che passava
si accorgeva di come la realtà, attorno a lui, acquisisse pian piano
forma: all'inizio erano stati
voci e suoni, poi ombre. Infine, tutto, gli alberi, gli arbusti, i
fiori, gli uccelli e tutti gli altri animali, gli uomini, aveva
assunto consistenza, materia.
Così
cominciò un esercizio che nella vita passata, quando aveva gli occhi
per farlo, non aveva mai praticato. Iniziò a guardare. Guardare ciò
che gli si presentava davanti. Non importava cosa fosse, ma
l'attenzione che dedicava, il tempo che passava, la parte di sé che
coinvolgeva.
Guardava
il mondo e, per la prima volta lo vedeva:
sentiva i profumi, sentiva i colori, percepiva le sfumature. Guardava
il fiume e imparava la necessità dello scorrere via, del dono
dell'acqua, del perdersi nel mare. Guardava il mare e imparava la
costanza dell'andare e ritornare. Guardava il bosco, la macchia, e
imparava la necessità delle radici. Guardava il cielo, ma ora lo
faceva con nostalgia e non era più pieno di orgoglio e brama di
gloria. Guardava gli uomini e si scopriva capace di vedere i loro
pensieri, i loro desideri, le loro necessità. Si scopriva capace di
ascoltare, capire, tendere una mano. Ma soprattutto guardava se
stesso e, finalmente, vedeva ciò che era: un uomo. Capace di cadere,
dall'immensità del cielo agli abissi della notte. Ma capace di
alzarsi e camminare. Ancora. E di nuovo.
Raccontano
che Omero fosse cieco per aver sempre dinanzi agli occhi le imprese
degli eroi del passato e poterle narrare. Raccontano che Tiresia
fosse cieco per poter vedere il futuro. Lui, Cieco, vedeva il
presente, ora, e gli sembrava il dono più grande che la vita potesse
avergli riservato.
Bellerofonte,
figlio di Glauco, re di Corinto. Il suo vero nome era Ipponoo, ma
divenne Bellerofonte dopo aver ucciso Bellero. Sconfisse la Chimera,
i Lici e le Amazzoni, in groppa a Pegaso, il cavallo alato nato dal
sangue del capo mozzato di Medusa. Sempre in groppa a Pegaso, infine,
voleva raggiungere l'Olimpo, ma Zeus mandò un tafano a pungere il
cavallo che si imbizzarrì e sgroppò l'eroe. Pegaso raggiunse
l'Olimpo, ma Zeus, da allora, se ne servì come animale da soma,
Bellerofonte, invece, precipitò su un roveto e rimase cieco e zoppo.
Vagò a lungo, solo e ramingo, per la terra. E il mito non ha
tramandato la storia della sua morte...
Commenti
Posta un commento