La formica di Acquaresi
Giuannica si siede. Si guarda le
mani e sospira. Le maniche arrotolate fin quasi al gomito. In ogni stagione. Intrise
della fragranza del sapone di Marsiglia, come ogni capo che possiede. Sta tutto
in un piccolo armadio ad anta unica, con quelli del marito. Composta, poggia i
palmi sul grembiule che indossa sempre, traccia tenace della sua operosità che
non conosce sosta. Ogni segno sulla pelle lucida, consunta ed arrossata dal
lavoro, è un ricordo, che legge con chiarezza. Anche se non ha mai imparato a
leggere. Il volto stanco e mite incorniciato dal fazzoletto, sollevato appena,
posteriormente, da una crocchia minuta di capelli ancora neri. Non porta
orecchini. Una voglia viola scuro, a forma di mora, sotto la guancia sinistra,
dove comincia il collo. Gioco irresistibile per le dita bambine dei nipoti. Un
occhio velato di azzurro, per la fatica dei pesi portati sul capo, dicono le
figlie, e che la rende sognante ed insieme impenetrabile.
Mi osserva intimidita, è strano
per lei che qualcuno si interessi alla sua storia, è convinta di essere stata
una tra le tante. Poco singolare. Solo una donna tra le tante cresciute in mezzo
ad una povertà avvilente. In una terra dalla bellezza quasi imbarazzante da
quanto è maestosa, e in contrasto, mi è sempre venuto da pensare, con la fatica
della vita che vi veniva condotta. Ma forse l’uso di un tempo passato non
rivela la verità. E’ triste attualità. Terra avara, arida, inadatta a
qualsivoglia coltivazione che produca reddito. Microscopici vigneti, agrumeti
ed orti destinati al consumo familiare. Attraverso le sue parole stentate,
timide fin quasi a dar fastidio per il tono dimesso, ripercorro anch’io quella
stradicciola che dal piccolo borgo di Acquaresi, tra Buggerru e Masua, conduce
allo spiazzo fuori dalla miniera. Vi cammina quotidianamente, avanti e indietro,
ricalcandone il tracciato, uno stuolo di donne, poco più che bambine, anzi
proprio bambine, e gracili adolescenti, in file ordinate. Formiche operaie. Anche
il villaggio è come gli altri, solo più minuscolo. Tra le palme secolari
qualche casa modesta, la Direzione e l’Ospedaletto. Poco discosta la chiesetta
campestre di Sant’Antonio. Quelli più forti trovano impiego nelle architetture
del sottosuolo, dove, dicono, si costruisce al contrario, e per sottrazione, verso
l’inferno. Gli inerti, sputati fuori con rabbia, a forza di braccia, mutano il
paesaggio e lo colorano di sopruso. Stratigrafie violentate. Coni grigio rossastri
ad offendere il verde della vegetazione bassa e rada, a ridosso del mare. Per
il resto distese di gariga, dove il viola - azzurro del rosmarino e della
lavanda si mescola al giallo dell’elicriso e della ginestra. Solo l’asfodelo
non china la testa, ed ondeggia altero guardando l’orizzonte. Un freddo tenace,
che sgretola i muscoli, d’inverno, vento potente che annulla le vesti
insufficienti. Mere ragnatele a coprire la decenza. D’estate un sole implacabile
e polvere fine che si solleva annebbiando il pensiero e spezzando il respiro. Negli
occhi i colori di una bolla di sapone che si intrufolano nella visione, come
una sbornia. Di queste creature solo le mani interessano a chi comanda, che
siano veloci e instancabili, piccole e prensili. Il resto non conta. La paga un
tozzo di pane ammuffito gettato con disprezzo a chi è lì perché ha fame. Il
poco che resta da spendere allo spaccio aziendale. Qui è tutto miniera. E
miseria. Però se innalzi lo sguardo vedi il mare, selvaggio e immenso. Per chi
ha buona vista, nei giorni limpidi di sereno, facendosi schermo con la mano, oltre
lo scoglio bianco del Pan di Zucchero, lascia intravedere altre terre, mondi
lontani, mai visti da vicino. Immaginati. Forse desiderati, come un altro
destino possibile. Cercano il minerale quelle mani abili, lo selezionano per
grandezza e purezza. Piombo e zinco, ed anche argento, in quantità inferiore. Poche
lire per non pesare sulla famiglia numerosa, e poi, con pazienza infinita, per
preparare il corredo. Dopo il matrimonio le donne non fanno più le cernitrici,
il loro tempo è tutto per la famiglia e per il marito minatore. E per la
preghiera che non venga mai il giorno che la sirena, fuori dall’orario dei
turni, suoni proprio per loro l’urlo più temuto. Ma la sirena della miniera ha
sempre gridato il dolore di una comunità.
Avrei voluto davvero ascoltarlo, questo
racconto, dalla tua voce, Nonna. Non ne abbiamo avuto il tempo. Nata nel 1903,
eri troppo anziana e provata per guidare il mio interesse verso il mondo al rovescio
della miniera, che mi accompagna da sempre. In ogni pagina, luogo,
testimonianza, io ti rivedo. E con te il tuo sposo. Immagino paura e stenti. Il
buio caldo e infido come il fiato di un mostro mitologico. Sommo quello che
apprendo da altri come se fosse parte anche della tua vita che non ho
conosciuto. Pochi i ricordi di te. Il tuo amore per il pesce che riuscivi a
smontare completamente come il gatto più famelico e con gran compiacimento. Seduta
in disparte, in un angolo del tavolo riservato ai bambini, sempre a fare spazio
agli altri. Il rispetto partecipe con cui, ogni anno, ci portavi, fino
all’inizio del viottolo della tua casa, che raramente raggiungevi, per
assistere all’” Incontro”. E le espressioni del viso, sul quale compariva tutta
la tua gioia al ricongiungersi della Madre, con il mantello stellato, sfavillante
di azzurro, con il Figlio. Oppure l’entusiasmo bambino che ti avvinceva al
sentire il richiamo del camioncino dell’uomo che vendeva la varechina. Sfusa, a
litri. Te ne occorreva sempre. Ma era un pretesto per spendere una manciata di
lire senza rendere conto a nessuno. Tue, finalmente. Tra quelle scatole
impilate dentro il furgoncino tazzine da caffè che trovavi irresistibili,
strofinacci da cucina, imbuti e poco più. Piccoli tesori che portavi a casa con
la cura che regalavi ai nipoti neonati. Per poi continuare ad usare le cose vecchie
per non rovinare le nuove.
Talvolta, nel vagare tra le
grandi corsie degli Ipermercati mi viene da chiedermi che impressione ne avresti
tratto. Credo ne saresti stata intimorita ed avresti pensato a chi mai potesse
servire quel mare di roba.
Formica per tutta la vita, senza
pretese, al servizio degli altri. Poco dopo la lunga malattia e la morte del
nonno, sei andata via, certa di aver assolto il tuo compito fino in fondo, a
riposare in pace, finalmente.
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