Vi è mai capitato di rimanere
muti di fronte a un quadro? Di rimanere ipnotizzati da uno sguardo dipinto che
sembra raccontare mille storie e mille vite? Di avvicinarvi tanto da far
suonare l’allarme per vedere, nitide, le pennellate, i colpi di spatola o gli
schizzi di colore e ripercorrere attraverso la tecnica i gesti e i pensieri con
i quali un artista ha creato la sua opera?
A me si, è capitato, anzi, capita
quasi sempre.
Questa rubrica parla di questo,
di storie suggerite dai soggetti dei quadri ai miei occhi e alla mia fantasia. Storie
di donne, per mia scelta. Ma anche storie degli artisti che li hanno dipinti. Questo
è il fil rouge che lega i racconti di questa nuova rubrica: sono storie di donne, di
uomini e storia dell’arte: storie mute che provo a tradurre in parole. Sperando
di non essere troppo pretenziosa… Ecco a voi
La Muta di Raffaello
Guardami. Ti sto spiando mentre
sali gli ultimi scalini attenta a non inciampare.
Voltati. Ti osservo perderti con
gli occhi tra le pareti della sala, traboccanti di bellezza.
Tu ancora non mi hai vista ed io
ti sto fissando.
Ti vedo, ti guardo, ormai ti
conosco, so tutto quel che conta di te.
E ora ti parlo.
Mi chiamano la Muta.
Muta.
Come se non parlassero abbastanza
le mie mani inquiete che stringono un fazzoletto. Parla lui per me, dice: “vedova”.
Parlano le mie mani trattenute mentre vorrebbero scagliarlo via, quel simbolo
di lutto. Poche cose ereditai dal mio matrimonio precoce. Un figlio e un
fazzoletto da vedova. Abiti verde scuro e l’immagine terribile della furia di
uomini assetati di potere. Il tanfo dolciastro del sangue e l’angosciante possibilità
di essere data in sposa. Data a un destino non mio. Ancora una volta.
Muta.
Come se non parlassero i riccioli
morbidi che sfuggono alla compostezza del velo sottile che mi trattiene i
capelli. Impercettibilmente giocano col mio viso. Esiste sempre una fuga dalle
catene dorate, io lo so, esiste sempre un modo per sentire la vita. Ma so che
non deve essere visto da tutti. Non agli uomini e al loro stupido onore, oppure
la fuga sarà punita. Ed io sento che accadrà. Presto.
Muta.
Come se per tacere bastasse
chiudere la bocca. Le mie labbra serrate conservano ogni grido, ogni preghiera,
ogni supplica che ho fatto ed è rimasta inascoltata. Solo ora che taccio il mio
grido è udibile a chi sa e vuole guardarmi.
Muta.
Come se i miei occhi non
dicessero a chiunque li incroci tutto quello che hanno visto. Molto più di
quello che i vent’anni che dimostro avrebbero dovuto vedere. Più di quello che a
una nobildonna è lecito sapere. Avrei preferito che diventassero ciechi per non
dover vedere e piangere ancora, invece sono rimasti aperti e hanno iniziato a
parlare.
Un giorno giunse al palazzo un
uomo per fare un ritratto e volle ascoltare una ragazza silenziosa per i più. Ascoltò
il mio volto, mi guardò. Mai vidi uomo guardare il mondo come faceva lui. Per
lui ero solo un essere vivo, vitale, parlante, parte di una natura amata fino a
consumarla con gli occhi. Vide le mie mani inquiete, capì con quanto sforzo
avevo chiuso le labbra. Si accorse della mia libertà. Guardò i miei occhi e udì
la mia anima.
Sono passati 508 anni.
Quando vidi il dipinto dissi
solo: “Non sono così bella, messere”. Lui rispose semplicemente “vedete solo
quanto io ho visto guardandovi, mia signora”.
Allora imparai a guardare e vidi
anche io.
Per questo ora ti guardo e so
tutto di te, da quando hai fatto l’ultimo scalino prima di arrivare alla sala
traboccante di bellezza, attenta a non cadere.
Il giorno in cui imparai a
guardare mi vidi, e capii.
Capii di essere più nobile del
nome che portavo.
In tanti hanno cercato il mio
nome, qualcuno l’ha trovato, ma ormai non ha più valore.
Io l’ho dimenticato quel giorno.
Della Rovere, Montefeltro: sono nomi senza alcun significato e non voglio più
sentirli.
Il mio ritratto ha smesso di
essere un ricordo per diventare un’eredità preziosa, un “Raffaello”.
E messere Raffaello, l’unico uomo
che davvero mi vide e raccontò la mia storia, l’uomo che mi insegnò a guardare,
è l’unico nome che ancora voglio sentire.
Mi chiamano la Muta.
Io sono la Muta.
Tu all’improvviso hai smesso di
parlare, incantata dalla bellezza. Finalmente hai perso le parole e sei pronta
ad ascoltare.
Ora voltati, ti sto guardando.
Cosa state vedendo mia signora?
Il vostro sguardo non si ferma ai giardini oltre la finestra, non cerca, come
gli altri, di intuire dai miei gesti il disegno che si compone sicuro su questo
cartone. State guardando il domani. Ma vedete il vostro ieri. L’oggi vi sfugge
per quanto vogliate trattenerlo. Le vostre mani temono, ma negli occhi avete
già tutto il coraggio di cui avete bisogno. Quale tumulto cela la vostra fiera
compostezza? Certamente i pensieri che vi trafiggono la mente sono più delle
voci che si rincorrono attorno al palazzo. Il vostro sorriso non si è sciolto
alla mia voce suadente, ma ciò che vedo è abbastanza perché io possa dipingere elegante
equilibrio e assoluta nobiltà, anzi, ancor più in alto: bellezza.
“La muta” è un ritratto di
nobildonna dipinto da Raffaello con la tecnica dell’olio su tavola nel 1507. Il
suo nome enigmatico l’accompagna già dal XVII secolo, quando il quadro fu
incluso con questa dicitura nell’eredità di Vittoria della Rovere.
Sull’identità della giovane dama ritratta si è tanto studiato e scritto: la
potente ed energica Giovanna Montefeltro? La giovane e sfortunata Maria Della
Rovere?
Quando mi ha parlato, la Muta, mi
ha detto di non pensare al suo nome, quindi non vi dirò nulla di più e se
vorrete placare la vostra curiosità (se sono riuscita a suscitarla) potrete
facilmente trovare notizie sul dipinto e sulla storia di queste affascinanti
donne del Rinascimento italiano.
Oltre a messere Raffaello che
l’ha resa immortale, la nostra amata gentildonna ha nel cuore i carabinieri che
il 23 marzo del 1976 la riportarono da Locarno al suo posto alla Galleria
Nazionale delle Marche, nel Palazzo Ducale di Urbino, da dove fu rapita il 6
febbraio del 1975. Non le piacque dar piacere a dei delinquenti e fu molto
felice di tornare ad essere Patrimonio Pubblico.
Proprio a causa di questa brutta
avventura però ci siamo incontrate: a luglio infatti è approdata a Cagliari,
dove starà in mostra fino al 15 ottobre insieme a più di cento altre
meraviglie, tra quadri e reperti archeologici, che hanno in comune con lei la
sorte di essere state rubate e successivamente recuperate grazie al lavoro del
Comando dei Carabinieri del Nucleo di tutela del Patrimonio Culturale, in
occasione della mostra “la memoria ritrovata”, alle carceri di San Pancrazio.
Raffaello nacque il 6 aprile del
1483 e trentasette anni dopo, lo stesso giorno, morì. Racconta il Vasari che
morì dopo quindici giorni di agonia a causa degli eccessi d’amore. Non sappiamo
se sia vero, certo è che visse con amore: per l’arte, la bellezza, la natura,
la vita. Da Urbino a Città di Castello, da Firenze a Bologna fino a Roma portò
con il suo lavoro di pittore e architetto armonia ed emozione e ancora è così
per chiunque abbia la fortuna di incontrare una sua opera.
Se andate a Roma non dimenticare
di entrare al Pantheon. Non fatevi fuorviare dalle lugubri tombe reali e
cercate una lapide spoglia e sobria: “Qui è quel Raffaello da cui, finché
visse, Madre Natura temette di essere superata, e quando morì temette di morire
con lui”. Portate un saluto e un sorriso, con grazia, a colui che più di ogni altro
la grazia ha reso visibile e vera.
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