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Agli albori della
civiltà, la vita di nessun popolo sulla Terra era facile, ma quella
degli indios Shuar, che vivevano nella foresta pluviale, era, tra
tutti, particolarmente sfortunata. Essi infatti vivevano tra il verde
rigoglioso, ma la vegetazione era così fitta che raramente il Sole
riusciva ad attraversarla per far penetrare i propri raggi, caldi e
lucenti, fino al suolo. Al sole si scaldavano le scimmie, si
rallegravano gli uccelli, che vivevano sugli alti rami, ma gli uomini
non ne potevano godere. Ogni giorno, a metà giornata, pioveva, per
lunghe ore, e tutto si impregnava di acqua, abbondante, e stillava
gocce fino al giorno seguente. La cosa più penosa per gli indios
Shuar, però, era nutrirsi. Non avevano fuoco e scaldavano gli
alimenti sotto le ascelle, così il cibo le infettava e spesso si
formavano piaghe aperte e purulenti.
In una grotta, al
limitare della foresta pluviale, vivevano i Giganti. Essi possedevano
il fuoco, ma non lo avevano mai voluto donare agli indios Shuar. Per
tanto tempo gli abitanti della foresta avevano mandato regali ai
Giganti per ingraziarsi il dono del fuoco, ma senza successo. Allora
avevano tentato di entrare nella grotta per rubarlo, ma i Giganti
rotolavano una grossa pietra all'imboccatura e la fessura che
rimaneva aperta era troppo piccola per gli uomini. Qualcuno,
tuttavia, era riuscito ad intrufolarsi nella grotta, però di lui non
si era saputo più nulla. Così, tra gli uomini, regnava la
rassegnazione e la paura.
Solo la vechia Nonna, la
capostipite della tribù, l'Anziana Saggia degli indios Shuar,
sperava ancora. Un giorno, che si sentiva particolarmente stanca e le
ossa le pesavano per la forte pioggia, andò nella radura al centro
della foresta e chiamò a sé tutti gli uccelli del cielo, coloro
che, variopinti nelle loro piume dai colori sgargianti, abitano i
rami alti degli immensi Alberi e vedono il Sole. Chiese aiuto per
rubare il fuoco ai Giganti, ma in cambio ricevette solo canti di
derisione e scherno: gli uccelli non si avvicinano al fuoco, perché
le loro penne si bruciano facilmente, impedendogli di volare. Mentre
se ne andava, sempre più stanca e curva sul suo vecchio bastone,
sentì come una carezza che le si posava sulla spalla. Era Jempe,
l'uccellino più piccolo e colorato che avesse mai visto,
piccolo come un grande insetto, dalle ali veloci e dalla coda lunga e
bellissima.
Vado io – le disse. –
Fidati di me!
La vecchia lo guardò
sconsolata, come poteva un essere così indifeso portare il fuoco,
se si erano rifiutati tutti gli alati della foresta, forti e saggi?
Non
puoi – gli rispose – sei troppo piccolo. Vai in pace!
Era
un uccellino molto piccolo, Jempe,
ma molto testardo. La mamma gli aveva spiegato, fin dai tempi del
nido, che non serve essere grandi per aiutare gli altri, ma serve
essere buoni di cuore e generosi. E gli aveva anche detto che niente
è impossibile, se ci credi fino in fondo, e che non saprai mai se
sei capace a portare a termine una grande impresa, se non ci provi.
Non
fu facile per un esserino così piccolo e leggero arrivare alla
grotta dei Giganti in mezzo a tutta la pioggia che cadeva quel
giorno, ma lui aveva nel cuore il cinguettio di fiducia della sua
mamma e ci riuscì. Era sera, quando giunse, così fradicio che quasi
non riusciva più a muovere le ali, divenute troppo pesanti.
Dall'apertura della grotta filtrava un rivolo di fumo: i Giganti
dovevano aver acceso il fuoco. Si fece forza ed entrò. Era bello, il
fuoco, rosso e giallo e arancio e viola: cambiava in continuazione!
Emanava un tepore buono e piacevole e Jempe,
quasi dimentico della propria missione, si avvicinò e si mise a
scuotere e a lisciare le penne perché si asciugassero. Allargò le
ali, allargò la coda, quando, i Giganti lo videro e provarono a
catturarlo. La lotta fu dura, Jempe cambiava
continuamente direzione al volo per sfuggire alle grandi mani che lo
volevano prendere. Vide che l'apertura della grotta non era lontana e
ora che era asciutto poteva raggiungerla facilmente, ma per arrivarci
doveva passare sopra il focolare. Non ci pensò un attimo e si lanciò
da quella parte, ma forse volava troppo basso e la lunga coda,
passando sopra il fuoco, si accese.
Fuori
dalla grotta, Jempe volò
più veloce che poteva attraverso la foresta fino alla radura dove
aveva parlato con la vecchia Nonna. Esausto si posò sopra un ramo
secco ed esso prese immediatamente fuoco, ma ormai della sua
lunghissima coda non restava che un moncherino frastagliato e
biforcuto.
Così
il popolo degli indios Shuar ebbe il fuoco. E non lo perse più,
imparando con il tempo a governarlo e conservarlo.
E
così, Jempe, il
Colibrì, da allora ha una coda corta e biforcuta, ma ancora colorata
di vivacissimi colori e splendida, a motivo del suo dono. Un dono
grande, quello del fuoco, che solo il coraggio di un essere piccolo e
generoso poteva portare.
Tratto da una Leggenda
dell'epoca precolombiana, conservata attraverso i secoli e narrata
dalla Comunità Shuar, dell'area Jivara, in Perù.
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