Il canto contro la paura
Di lei ricordo con
estrema chiarezza il viso. Perfetto l’ovale, grandi occhi
scurissimi, tratti regolari e assoluti, da canone classico. I capelli
lunghi, lisci e corvini, con la scriminatura centrale. Bellissimi.
Estremamente comunicative le espressioni, di una profondità ricca di
pathos. Un volto che non si scorda. Nella mia mente è
l’indimenticata Marta del Gesù di Nazareth di Zeffirelli. E la
voce, così potente, profonda e vibrante. Un canto incantatore,
ancestrale, che promana da una figura il più delle volte immobile,
ieratica, severa come una statua. Sapevo poco della sua vita. I
personaggi noti spesso arrivano al pubblico sminuiti nella loro
complessità, è un aspetto che emerge e castra gli altri. Maria ha
fatto tante cose, diversissime. Ha cantato sempre, da piccolissima. I
canti della sua terra. Dei suoi padri, di una vita comunitaria
perduta. Era un modo per ammaestrare la paura, il suo canto, uno
scudo contro le Ombre che temeva di incontrare, quando appena
albeggiava, si recava a lavare i panni al fiume, a Biddanoa. La paura
spinge a correre, ma se sul capo reggi una grande cesta colma di
bucato non puoi. Allora il suo canto aleggiava sulla vallata e
inteneriva e commuoveva i passanti che sapevano della sua presenza al
fiume. E’ così esile, da bambina, che a stento ci si immagina
possieda una tale voce. Ma è il suo dono, presto riconosciuto. Canta
in chiesa, in latino e in sardo, e nelle sagre paesane, accompagnata
dal nonno a dorso d’asino. Maria è orfana di padre, l’ha perso
molto presto, morto di povertà, dice, solo, in un ospedale
sassarese. Lavoro e scuola, poca, meno di quella che avrebbe voluto.
Ma dal balcone della casa di Siligo Maria sente prepotente il bisogno
di nuovi orizzonti, di sfuggire alla miseria, di emanciparsi. Dopo
esser stata eletta Miss Sardegna, partecipa alla competizione
nazionale. Roma diventa la sua casa. Fa di tutto, essicca foglie di
tabacco, realizza candele di cera. Finché non la nota un uomo che
diventerà suo marito e manager, forse con una maggiore propensione
per il suo secondo ruolo. Maria studia all’Accademia di Santa
Cecilia. Da inizio ad uno straordinario lavoro di tutela della
memoria del canto sardo tradizionale. Ha salvato, registrandoli,
spesso dal vivo e nel loro contesto originario, numerosissimi canti
che diversamente sarebbero andati perduti. Maria è una donna che gli
anni fanno più bella. Dalle foto è evidente. Dotata di rara forza
espressiva e di intensità interpretativa. La sua è una ricchissima
esperienza artistica. Fragile e testarda va per la sua strada. Non
cambia genere come le propongono con insistenza, per adeguarsi ai
gusti del mercato, che non è che straveda per la musica folk, per
giunta in lingua sarda. Piace la sua voce, la sua bellezza, il suo
portamento fiero e nobile, non quello che canta. Non insegue la
ricchezza. Questa sua ostinazione porterà a diverse rotture con le
case discografiche. Ha solo un debole: le scarpe, forse per averle
desiderata a lungo da piccola, con i piedi feriti e pieni di geloni.
Diventa famosa, anche all’estero, in particolare in Francia e in
America. Collabora con artisti di fama internazionale, come Joan Baez
e Amalia Rodriguez. La sua carriera va oltre il canto, è richiesta
al cinema e a teatro. Registi importanti. Interpreta tante donne:
Teresa d’Avila, Grazia Deledda, solo per ricordarne alcune. Scrive
poesie di forte impatto e profondità. Si impegna politicamente, come
consigliere per il comune di Roma. Ma poi dirà di aver fatto un
errore, che un artista ha poco a che fare con il mondo della
politica. E’ chiamata ad insegnare antropologia culturale
all’Università di Bologna, un ruolo che la intimorisce e insieme
la gratifica. In età matura conosce un giovane architetto di cui si
innamora. Dopo un ventennale rapporto burrascoso e poco felice lascia
il marito per lui. E accade ciò a cui ormai non pensava più, e che
le avevano detto non fosse possibile: a quarantasette anni diventa
mamma di David, un dono straordinario. Ma la vita non è tenera: le
riserva gioie e grandi dolori. Lutti, incomprensioni, tradimenti e
abbandoni. La fine dell’amore la prostra nel corpo e nello spirito.
A lungo sarà inebetita dal dolore, inerme. Afferma che l’amore
vero, assoluto, uccide. Non c’è mai coincidenza nella fine di un
sentimento. E chi viene abbandonato muore. Coverà dentro un’angoscia
insostenibile. Perderà anche la voce. Per poi rinascere, per gradi,
per amore del figlio. Amata ma poco compresa, questo il suo destino
di tutta una vita. In Italia per i limiti linguistici di comprensione
del suo canto. Nella sua terra per una specie di ritrosia immotivata.
L’accusavano di aver svilito il canto sardo facendolo conoscere e
“commercializzandolo”. Solo negli anni si capirà la portata
della sua operazione, o meglio della missione che andava compiendo,
con amore e mossa da un intento di tutela e salvaguardia, non altro.
Avrebbe avuto la possibilità di percorrere vie più agevoli. Era
magnetica. Una volta, in India, in un momento di pausa dalle riprese
di un film per Raidue, tratto da un romanzo di Conrad, passeggiando
per le vie di Bombay, scorge una chiesetta bianca che le ricorda
quella di Siligo. Entra. E’ deserta. Le viene spontaneo intonare
l”’Ave Maria”. Solo alla fine, quando si volta per uscire, si
accorge che una folla si è assiepata alle sue spalle, rapita dalla
sua voce. Il suo canto va oltre i limiti della lingua, sa riempire
spazi profondi. Tocca dentro il cuore. Dalle parole di chi l’ha
conosciuta sappiamo che Maria Carta è stata una donna di intensa
simpatia, che si esprimeva pacatamente, alternando le sue due lingue
in piena armonia. In un crepitio allegro di mortaretti. Brava cuoca,
amava cucinare i cibi della sua terra. Adorava la musica, i libri, i
giovani, le collaborazioni “improbabili”: una volta Jovanotti
l’accompagnò alla batteria! Il suo operato ebbe riconoscimenti
tardivi: solo nel 1993 le fu tributato il riconoscimento di “Donna
Sarda dell’anno”. Il presidente Cossiga l’aveva già nominata
Commendatore della Repubblica. Ma la malattia che si era manifestata
da subito invasiva, nel 1989, poco dopo la morte della madre, non
demorde. Ed è crudelmente misantropa, la attacca nella sua
femminilità. Scompare per un po’, confortandola, per poi
riapparire più feroce che mai. Una lotta combattuta con fierezza,
fede e ironia, fino alla fine, nel settembre del 1994, quando si
spegnerà nella sua casa romana senza aver mai perso lucidità. Tra i
tappeti a pibiones ed i cestini che amava realizzare. Diceva
di essere nata a vent’anni, quando aveva iniziato ad aprirsi al
mondo.
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