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La scuola buona di una prof a tempo perso - by Red

Ci sto pensando tanto alla buona scuola in questi giorni. Un po’ perché è tema all’ordine del giorno, un po’ perché un anno fa di questi tempi mi accingevo ad affrontare una delle esperienze di vita e lavoro più intense ed appaganti della mia vita: stavo per conoscere i miei ragazzi. Sì, perché è così, diventano nostri, i ragazzi: arrivi lì, fai una supplenza di due giorni, una settimana, un mese… e decine di occhi e sorrisi ti si scolpiscono indelebili nell’anima. Perché noi supplenti con tutte le nostre graduatorie saremo anche un problema tra i più spinosi e urgenti da sopprimere della scuola, ma in fondo siamo brave persone e ai ragazzi vogliamo bene, anche troppo!
Erano particolari i miei ragazzi, o forse no. Erano ragazzi antichi, ragazzi di frontiera. Ragazzi che alle superiori faticavano a leggere, a scrivere, a esprimersi in italiano, con tutti i problemi di apprendimento possibili e immaginabili, con tutte le povertà possibili e immaginabili. Alcuni di loro arrivavano a scuola di ritorno dalla campagna, manco fossimo dentro un capitolo inedito del Libro Cuore. Ragazzi duri, con una sfida al mondo adulto per ogni sguardo, ogni parola, ogni singolo atteggiamento. Quando ho messo piede in quella scuola, un istituto professionale agrario, mi è sembrato di entrare in un film e i bidelli mi hanno guardata con simpatia e un misto di apprensione e incoraggiamento, me con i miei trentatré anni per nulla evidenti, i miei sandali col tacco e il mio rossetto impeccabile… dovevo sembrare un po’ fuori tema. Ma l’apparenza inganna, sia la mia che quella dei ragazzi.
È stato bello lavorare con loro, è stato stimolante trovare una giusta chiave di comunicazione, è stata appagante ogni singola parola ascoltata e recepita. È stato incredibilmente divertente stare in classe una volta guadagnata con la giusta fatica quel po’ di fiducia che fa sciogliere la tensione e apre al dialogo. Li ho ascoltati con tutto il mio impegno, ho accolto tutto ciò che avevano da dire, ho provato, da parte mia, a raccontare il senso della grammatica, della lingua italiana, della letteratura e della storia, penso di aver imparato più io di loro, ma qualcuno ha capito Goldoni e Shakespeare con una sensibilità che non tutti gli adolescenti hanno.
Al primo appello ho notato che una ragazza era assente da tutto un quadrimestre e mi hanno spiegato che lei era brava, aveva tutti otto e nove e quindi la preside l’aveva convinta a trasferirsi alla sede di Elmas. È questo il punto su cui sbatto quando penso alla buona scuola. La scuola non può essere buona se separa, se ghettizza, se rinuncia. Non può essere buona se crea, in alternanza, campane di vetro e gironi d’inferno. La scuola è buona se si inventa e crea tutti i sogni che i miei ragazzi non riuscivano nemmeno a immaginare e si adopera a renderli possibili. La scuola è buona se si occupa prima di tutto dei ragazzi di cui nessuno si occupa, di quelli che tutti credono un investimento a perdere. La scuola pubblica non può inseguire la scuola privata, ma deve investire tutte le sue risorse per educare i ragazzi ai concetti di giusto, bello, buono, anche se è utopia non fa niente, ché se nel mondo è vissuto uno come Socrate l’utopia può esistere in natura.
Finché la scuola seguirà un’eccellenza di facciata fatta di parametri sterili non sarà mai eccellente. Finché inseguirà stupide classifiche fatte di numeri avrà solo l’eccellenza dell’ipocrisia, perché non servono ragazzi eccellenti né docenti eccellenti a scrivere “10” su quegli impiastri di registri online di fianco ai nomi dei figli di papà che finanziano le scuole dei loro pargoli. E i paparini spendaccioni avranno solo figli viziati e ignoranti e resi gretti dall’ignoranza della vita vera, quella della gente come i miei ragazzi, sui quali nessuno scommette e che nessuno finanzia, nascosti pudicamente nel ghetto di una sede di frontiera.
La scuola può essere buona solo se ricerca l’eccellenza dalla base, se si pone dei seri obbiettivi minimi da garantire a tutti i ragazzi, se non abbassa il tiro e non rinuncia alla sfida.
Se si pone nei confronti dei ragazzi come si pone una buona parte di questi vituperati e scioperati professori e maestri: se quando pensa a una riforma pensa “ai suoi ragazzi”, o per dirla con meno retorica se pensa alla didattica e alla cultura prima che ai fronzoli, ai giochi di potere e a come svendersi.
Poi, forse, son solo pensieri e sproloqui di una prof. a tempo perso, di una troppo giovane e con troppa poca esperienza, che non ha sbattuto abbastanza la faccia nella realtà delle cose. Forse. Però io la scuola l’ho vissuta e intesa così, e se avessi figli vorrei educarli così: alla giustizia, all’uguaglianza, alla bellezza, alla bontà e alla libertà. E per questo li manderei alla scuola pubblica e lotterei per avere questo tipo di offerta, più che uno stage in un’azienda.

Ma tanto io non ho figli e se posso faccio l’archeologa: chissà che mi salvi!

Commenti

  1. Leggo adesso questo post e lo trovo pieno di passione e impegno e di quel senso del dovere nel voler insegnare e formare gli scolari che si trova di rado...!!! complimenti!!!

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  2. Grazie!!! E' che ti rimangono dentro, gli alunnini, e davvero vorresti regalare loro tutto il bello e il buono che la cultura ha dato a te :)

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