Alla brezza di Maestrale che rende il golfo di Baratti un incanto per l'anima
Al mare, che unisce le donne nate sulle sue sponde, al di là del tempo e dello spazio, e ai suoi colori, che le fanno fanno brillare
Alla vanità e alla bellezza, che se anche non salveranno il mondo, sicuramente salveranno me
La resero splendida per il suo ultimo
viaggio, avrebbe riposato per sempre.
Le vesti eleganti, il velo
finissimo retto da quel sottile filo d’oro e zaffiri, intercalati
dal delicato verde dei grani di faiance, le mille sfumature del
riverbero del sole sul mare al mattino, poco dopo l’alba.
Quanta
armonia!
L’armonia delle lunghe ossa sottili che reggevano muscoli
agili e affusolati, coperti da pelle bianchissima, quando il sangue
percorreva vene e arterie e arrossava le gote incorniciate dai lunghi
capelli. Quando la vita pulsava, l’amore godeva e rideva bellezza e
privilegio in faccia al mondo. Quando al dito portava uno smeraldo
color del mare che ogni giorno scrutava con nostalgia.
Il mare
profondo all’orizzonte, il suo confine. Il mare da cui tanti
partivano e a volte tornavano, il mare che portava pietre preziose,
oro brillante, racconti incredibili, terre lontane, nostalgia
dell’ignoto. Il mare che faceva paura a tanti, ma mai a lei. Il
mare che portava via tanti, ma mai lei. Il mare che non avrebbe mai
varcato nella sua giovane vita, il mare che racchiudeva tutti i suoi
desideri nascosti e negati. La libertà dietro un orizzonte alla
portata degli occhi e del cuore, ma troppo lontana dalle mani e dai
piedi.
Smeraldo al centro, quel verde profondo e infinito, baciato
dal blu intenso del cielo, come lo zaffiro sulla destra, e a
sinistra, la parte del cuore, il rubino. Rosso come le labbra e i
suoi baci, rosso come le risate, rosso come l’amore per quel marito
bello, forte e ricco come nessun altro.
Tre pietre e due aquile,
potere e ricchezza. E ricordi, tanti ricordi quanti se ne possono
portare al dito. All’altra mano solo oro e uno stemma, motivo di
vanto, di onore e gelosie.
Troppa bellezza, ricchezza e giovinezza
per non suscitare invidia. Troppo splendore per non far fiorire voci
e cattiverie.
Come se la ricchezza sfreddasse le anime, come se sotto
i gioielli non si celasse pur sempre il sorriso vanitoso di una
giovane sposa incantata dalla vita. Come se quella casa parlasse solo
di fortuna e privilegio e non anche di rinunce, costrizioni, libertà
attesa, sperata, ma sempre rinchiusa in nome di un onore costruito da
altri, scelto dalla sorte per lei.
Alle braccia il bagliore dell’oro
e la malinconia dell’ametista, immagine perfetta di tutto il suo
destino. Riflessi di giorni solitari, di sogni inascoltati, ma così
forti e luminosi da accecare. Cavigliere fulgide a incorniciare le
gambe agili e belle. Quelle gambe che correvano a perdifiato sulla
spiaggia a rimediare sgridate infinite, da bambina. Ma che sempre
tornavano a correre.
La resero splendida per ricordare a
tutti chi era, per l’eternità.
Volevano ricordare ricchezza e
nobiltà, ma non tutti potevano capire quanto smeraldi, zaffiri,
rubini e ametiste possano raccontare di una vita. Quanti pianti e
risate stiano dietro a un vestito e al brillio dell’oro.
La
scoperta di sé in uno specchio, la visione della propria bellezza,
la ricerca della grazia per sorridere ogni giorno, il tentativo di
celarsi dietro un rigore fatto di forma ed eleganza, corazza dolce e
fragile per proteggere una nostalgia incurabile. E poi l’appartenenza
alla casa dove era nata, casa sua, amata e odiata come ogni casa. Il
luogo del dovere e la culla dei sogni. E la sua nuova casa, quella
del suo sposo, imposta senza domande, perché si chiama matrimonio,
ma somiglia più a un passaggio di proprietà.
Guardava il mare il
giorno che la portarono alla sua nuova vita: essere moglie, madre e
signora. Dimenticare i giochi e pensare al suo ruolo, lasciare i
desideri oltre l’orizzonte, non scelta, solo destino. Tra le
lacrime però venne quell’obbligo alto, fortissimo e ricco.
Quell’obbligo che significava sodalizio tra famiglie, controllo
della ricchezza, maternità precoce. E le lacrime divennero incanto
di felicità quando scoprì spalle larghe e braccia nodose in cui
rifugiarsi in mancanza del mare, e risa, complicità. Fu amore vero
per due occhi che erano lo specchio migliore per la sua bellezza,
l’unica cura per le sue paure. Due occhi blu come il mare
all’orizzonte, la sera, due occhi di zaffiro. Due occhi che troppo
spesso non c’erano. Che partivano resi freddi da armi e corazze di bronzo, alla
conquista di chi o di che cosa lei non poteva sapere.
E allora lo
zaffiro parlava di solitudine, unito dal mare smeraldo all’amore
rosso rubino, rosso come i baci e come il sangue, rosso come le corse
sulla spiaggia a sognare un abbraccio libero da tutto, oltre
l’orizzonte. Ma questo solo lei lo sapeva, perché l’oro era
bello e il suo sposo ancor più bello dell’oro. Lei, poi, era bella
più dell’oro e dello sposo insieme, e chissà mai da chi andava
quando correva a perdifiato sulla spiaggia su quelle gambe lunghe che
avrebbero fatto perdere la testa anche a un asceta. Così dicevano
tutti e tutte, perché tanta bellezza e ricchezza riuscivano solo a
coprire impietosamente la sua delicata umanità, esponendola
all’invidia. Tutti a parlare e a ferire, come se l’oro
cancellasse il dolore, anestetizzasse alle ingiustizie, come se
riparasse dalla morte.
Invece la morte venne e non tardò, e
portò via la sposa.
Con funerali dorati la nascose nella terra,
confuse il ricordo, cancellò il nome e il casato. Lasciò
l’altezzosa statura dello scheletro e obliò la dolcezza dello
sguardo. Preservò la perfezione dei denti e distrusse le labbra
rosse dischiuse al sorriso. Consumò inesorabile le trecce folte e le
vesti che la facevano apparire un angelo, il giorno del suo ultimo
viaggio.
Era così bella che non fu difficile il pianto per le donne
pagate a stracciarsi le vesti per la morte prematura di quella bella
ragazza ricca, che solo ora, fredda e immobile, riusciva a generare
pietà. Più sobrio il pianto di chi l’amava, composto per nobiltà,
pudore o educazione. Incessante e muto il pianto del mare, che non
aveva potuto accoglierla e portarla in altre sponde, ma aveva raccolto ogni suo desiderio e le aveva raccontato per tutta la sua breve
vita come sia fatta la libertà.
Lacrime di gioia furono quelle che
l’accompagnarono nel viaggio dopo l’ultimo viaggio, il viaggio
che non avrebbe mai potuto immaginare, che fece quando più nulla di
lei si ricordava nella città di Populonia. Quando ormai il golfo
aveva visto passare la vita di milioni di altre donne bellissime,
quando il mare era solcato da navi senza vele e piene di fumo.
Quando
fu trovata una tomba con il suo scheletro composto, ossa e oro.
Ancora stretti agli omeri i bracciali, le cavigliere a impreziosire
quelle gambe che tanto tempo prima facevano sognare, gli anelli al
dito, uno in ogni mano, la catena delicata, senza più un velo da
reggere, intorno al capo.
Non vidi l’istante in cui il sole la
baciò dopo i tanti secoli passati. Ho visto invece i suoi gioielli
affiorare dal buio di una cassaforte.
Ho visto i nostri sguardi in attesa che l’oro, in una delicata pulizia, tornasse a brillare.
Non eravamo un’archeologa, una restauratrice e una custode, ma
donne incantate dalla bellezza di un gioiello, dai colori vividi
dello smeraldo, dalla delicatezza infinita dell’ametista liberata
dalla polvere.
Non professioniste, ma donne incantate. Vanitose.
Vicine a quella ragazza senza nome. Brillanti di luce propria e
riflessa, emozionate nella bellezza.
Abbiamo indossato i suoi
gioielli, non potevamo resistere. Abbiamo messo le cavigliere ai
polsi, eravamo bellissime.
Qualcuno ci ha detto che indossare gli
anelli dei morti porta male. Non so se si dica davvero, o siano voci
di chi non ha dita abbastanza sottili per riuscirci.
Io li ho indossati.
Non so se sia male
la ventata di sensazioni che è venuta in un solo istante, non credo.
Vanità, bellezza, sorrisi, invidia,
cattiveria, felicità, tristezza.
C’era di tutto in quell’anello,
ma soprattutto storie che si componevano e spingevano a correre verso
il mare, a guardare l’orizzonte.
C’era tutto tranne il rubino,
che aveva lasciato un castone vuoto. La pietra rossa dalla parte del
cuore. Io credo che non volesse passare l’eternità legata all’oro
e alle aquile. O forse lo spero, non lo so. Penso che sia andato ad
abbracciare lo zaffiro e lo smeraldo laddove sono infiniti, al di là
dell’orizzonte.
Porta bene indossare gli anelli
dei morti: anche se solo nella fantasia, ti rende parte di una
storia, e ti accompagna oltre il mare ed il cielo.
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