La persistenza delle macchie
Ogni famiglia ha la sua storia.
E, non di rado, si rivela un bagaglio gravoso a portarsi. Curva la schiena. Se
poi si verificano fatti inconsueti, si conserva immutata, nel tempo, nella
memoria della gente, nel bene e nel male. Come la muffa sui muri, da un puntino
nero, poco visibile, ecco che si moltiplica e rispunta. Ed hai voglia di
grattare via, ridare la calce, la macchia, prima o poi, farà la sua ricomparsa,
tronfia, globosa e scura. Se poi la tua famiglia di origine è ricca e nobile,
la fantasia è una ricamatrice sfrenata. Quando poi i trascorsi dei tuoi
familiari non sono limpidi, anzi proprio foschi, non parlarne è impossibile.
La famiglia Misorro, originaria
di Tempio, diventa straordinariamente ricca. Gavino, un avvocato chiacchierato,
era considerato il più grande allevatore che la cittadina avesse mai
conosciuto. Certo qualche dubbio aleggiava sul sangue blu di quella famiglia.
Rosso semmai era il sangue versato copioso dietro un ruolo di apparente
legalità, nella lotta al banditismo, e che invece celava appropriazioni indebite,
grassazioni, e omicidi. Redivivo Don Rodrigo, l’avvocato Gavino pare
capeggiasse un piccolo esercito di fedelissimi, che, con forza brutale, imponevano
la sua volontà. Ma non era un caso isolato, il suo. Il fratello, ad esempio,
rispose al rifiuto oppostogli dalla famiglia della ragazza che aveva chiesto in
moglie, trucidandone, in una sola notte, diciotto membri, e non pago, ne
straziò i corpi.
Margherita nasce in questo
contesto. Ma è bianca, come la perla di cui porta il nome. Non compie atti disumani,
quella malvagità nell’agire non le appartiene, non l’ha ereditata dal padre
Gavino. La tenacia, si, inalterabile. Il suo unico peccato, quello, appena
sedicenne, bella, alta e nobile nel portamento, di essersi innamorata di un
giovane brillante, già avviato alla carriera di magistrato e che ricambiava i
suoi sentimenti. Chissà, forse il padre non l’amò mai, questa figlia pura, così
distante dai suoi canoni comportamentali. Una devianza genetica. Oppure l’amato
di Margherita apparteneva ad una famiglia con cui l’avvocato era in contrasto.
O forse, più semplicemente, non poteva concepire, che una ragazza scegliesse da
sé il suo sposo, abituato com’era ad imporsi brutalmente sugli altri. Ben noto
per la sua rigidità, per il suo essere tutto d’un pezzo. Che poi non significa
sia una virtù, ma quanto di più lontano si possa immaginare. Attratto dalla
competizione, il pericolo lo eccitava. A Carnevale, allo scoccare del tocco di
mezzogiorno, un suono di corno dava l’inizio alla gara, evento clou della festa
cittadina. Amava sopra ogni altra cosa la discesa forsennata, a cavallo, che si
riversava, in una frenesia allucinata di polvere ed urla, dalla discesa di San
Michele (l’attuale Via Azuni), fino all’angolo della chiesa di Sant’Anna, per
poi virare di botto, e compiere il percorso in salita, a ritroso. Abitavano
proprio lì i Misorro. La mamma di Margherita scongiurava il marito di non
prendere parte alla corsa. Ogni volta si verificavano incidenti e morti, tra i
cavalli ed i cavalieri. I ferri, scalzati dagli zoccoli, volavano e ferivano
gli astanti, anche quelli che erano assiepati nei balconcini borghesi,
realizzati con eleganti volute di ferro battuto. Ma Gavino non cedette mai alle
sue preghiere. Ed allora la moglie, volle dimostrare anche la sua di audacia. Decise,
travestitasi da uomo, di sfidare il marito ignaro, in coppia, “a pareggia”.
Trionfarono, illesi e alteri.
L’avvocato Gavino vietò le nozze.
Margherita non si scompose. Disse soltanto che mai avrebbe avuto un altro
marito e si fece suora di clausura, a Cagliari, dalle Cappuccine. Visse la sua
vita senza mai l’ombra di un pentimento. Modestamente, del frutto delle
elemosine, che divideva fraternamente tra i bisognosi. Buona e colta, dicono
che fosse un vero piacere parlarle. Tenne per tutta la vita una fitta
corrispondenza con i suoi numerosissimi familiari, sparsi un po’ ovunque,
nell’isola. Ma la sua esistenza di stenti e l’umidità della cella minarono nel
profondo la sua salute. Una sorella la scongiurò di venir via, e promise che le
avrebbe costruito una casetta, con annessa cappella, in cui avrebbe potuto
continuare ad onorare il suo voto di clausura. Ma suor Maria Speranza, questo
fu il suo nome, non accettò. In un giorno freddo di gennaio del 1896, si
spense. Il suo corpo vestito di bianco, esposto, protetto ancora una volta dalla
grata, per l’ultimo saluto dei tanti che l’avevano amata, conservava le tracce
della sua passata bellezza. E tra le preghiere a mezza voce, un mormorio di
sottofondo, di chi ricordava bene la storia di una giovinetta fattasi monaca
per un amore contrastato. Figlia di una famiglia avvezza al peccato. A nulla,
credo, valsero le chiesette fatte erigere dai suoi parenti ad espiazione dei misfatti
commessi, come quella del Purgatorio, a Tempio. Quello compiuto su suor Maria
Speranza fu l’ennesimo crimine.
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